di Dario Di Vico
Èpassata sotto silenzio ma, nel diluvio di norme del decreto legge Rilancio, c’è anche una sostanziale revisione di quello che fu a suo tempo il famoso decreto Dignità, successivamente diventato legge Di Maio. E sventolato dai Cinque Stelle come una profonda inversione di indirizzo politico-culturale rispetto al lungo e omogeneo ciclo di provvedimenti per il mercato del lavoro, che erano andati dal pacchetto Treu (1997) fino al jobs act (2015) con 11 governi diversi.
I l restyling della legge Di Maio oggi è motivato dal fatto che sono in scadenza 300 mila contratti a termine per ogni mese, per un totale stimato attorno a 1,5 milioni. Ebbene con le norme Dignità, che avevano irrigidito i parametri di conferma, questi contratti con tutta probabilità non verrebbero rinnovati. Da qui il dietrofront: si potranno prorogare senza fare alcun riferimento alla cosiddetta causale, la conditio sine qua non introdotta da Di Maio. Detta diversamente, alle brutte l’inversione politico-culturale di cui ci si era vantati finisce in soffitta lasciando prevalere il principio di realtà e ammettendo che quelle norme rischiano di farci perdere posti di lavoro. Gli psicologi potrebbero catalogare il tutto sotto lo schema del lapsus freudiano per cui all’improvviso si smette di recitare e ci si lascia scappare la verità ovvero che la legge Di Maio non era fatta per aumentare l’occupazione ma per marcare un’identità politica.
Il dato singolare è che tutto ciò sia emerso nel contesto del decreto Rilancio, che come ha messo in luce Sabino Cassese sul Corriere , si muove con un intento prevalentemente risarcitorio e vede lo Stato proporsi innanzitutto nella sua veste di redistributore. E quindi se in tutto il provvedimento prevalgono le ragioni della politica, sul merito del mercato del lavoro la spuntano quelle dell’economia. Ora è chiaro che misure rivolte a mitigare il disagio e la sofferenza sociale sono state adottate in tutti i Paesi occidentali, dalla Gran Bretagna al Giappone passando per la Germania, la Francia e gli stessi Stati Uniti ma in tutti questi contesti è chiaro che i trasferimenti statali non potranno essere mantenuti sine die perché sono costosi e ingesserebbero il mercato del lavoro. Tanto più questo ragionamento è valido da noi per i limiti di spesa pubblica e indebitamento che, una volta passata la gestione dell’emergenza, torneranno a farsi sentire. Di conseguenza la buona flessibilità, come quella reintrodotta dal decreto Rilancio, potrà giocare un ruolo importante nei prossimi mesi.
A cominciare ad esempio da una mini-riforma della cassa integrazione, come proposto sul blog La Voce da Maurizio Del Conte e Andrea Garnero. Eliminare il divieto di cumulo tra Cig e attività lavorativa per incentivare il singolo a recuperare occupabilità e quindi ad uscire dalla trappola del sussidio a vita. In questo modo la cassa tutelerebbe la carriera professionale e non il vecchio posto di lavoro. Per rendere virtuoso questo meccanismo occorrerà ricominciare a parlare di una formazione che accompagni l’itinerario e lo renda possibile grazie al trasferimento di nuove competenze. Tutto per altro in un mercato del lavoro che, per le scelte che verranno fatte dall’economia e dalla società post-pandemica, vedrà inevitabilmente cambiare la mappa delle occupazioni più richieste e di quelle obsolete. Potrà sembrare strano che in una fase in cui gli occhi di tutti sono rivolti alla pur comprensibile conservazione dell’esistente si possano avanzare ragionamenti di flessibilità, occupabilità e cambiamento delle competenze ma è stato proprio il piccolo episodio che ha portato il governo a modificare la legge Di Maio ad autorizzarli. E’ la dimostrazione che il virus, almeno per ora, non ha abbattuto il principio di realtà.