DI CORPI, RICORDI E FANTASIE

Filippo Timi e Lucia Mascino protagonisti di Promenade de santé, di Giuseppe Piccioni da Nicolas Bedos,

 

Cosa succede quando il sesso smette di essere una performance per diventare uno specchio? Istintivamente, se c’è una domanda a cui risponde Promenade de santé, in scena al teatro Franco Parenti fino a domenica 31, verrebbe da pensare a questa. Non fosse che, a ben guardare, è imprecisa.

Perché, alla prova dei fatti, nel dialogo tra l’erotomane – che ha il volto di Filippo Timi, al ritorno su un palcoscenico dove è considerato a casa sua – e la ninfomane – una Lucia Mascino che, semmai ce ne fosse bisogno, è nel pieno della sua consacrazione artistica – di sesso ce n’è molto poco.

Certo, l’acuto e raffinato testo del francese Bedos li vuole entrambi in una clinica per guarire “dal sesso, dalla seduzione, dalle lacrime e dalle allucinazioni”.  Ma quello che si consuma, in realtà, è un incontro di consapevolezze. Di fragilità, anche, ma fuori di retorica.

E allora, forse, quello che si svela come una performance e quindi uno specchio non è il sesso, ma quello di cui è metafora. La vita stessa, l’incontro con l’altro.  I due protagonisti sviscerano e affrontano se stessi e i reciproci bisogni con la sincerità e la precisione che, fuori, manca agli autoproclamati sani.
Perché in fondo siamo tutti alla ricerca di  chi siamo, spinti dalla fame di proiettare sulla persona a cui affidiamo il talento (o l’illusione) di capirci, la scomparsa dei nostri fantasmi.
Così sono le parole a farsi corpo, – anche sensuale, sicuramente amoroso, schermaglie comprese – e i corpi, quando ci sono, hanno l’intimità e la grazia che possono rendere vera anche per la scena soltanto due che abbiano la chimica autentica che dimostrano i protagonisti, coppia artistica ventennale ma per la prima volta in scena da soli.

Attraverso di loro il testo di Bedos prende vita ai tempi in cui il narcisismo e l’egotismo, mescolati alle fantasie individuali, creano, non in questo ordine, mostri e suggestioni. Si trasforma così in un passo a due di grande potenza evocativa, un gioco d’attori ai limiti del virtuosismo – nel senso migliore del termine, quello che rende evidente l’abilità di due virtuosi dello strumento.

In cui due – e molti – frammenti di umanità si cercano, si avvicinano, si scoprono e si respingono, confondono negli occhi l’uno dell’altra se stessi e la propria immagine con l’obiettivo, forse, di giungere a quel nucleo di verità che solo può permettere un equilibrio, fosse anche nel riconoscere che quell’equilibrio non esiste.

Una prova apprezzatissima per salutare le sale tornate a piena capienza, nobilitata dalle intuizioni eleganti di Giuseppe Piccioni, che si confronta per la prima volta con la regia teatrale trovando una sintesi sapiente tra la forma della scena e quella che conosce meglio del cinema, creando una sovrapposizione di spazi tra il luogo della sicurezza e quello della realtà, quello in cui si sceglie cosa essere per trasformarsi in eroi da romanzo e quello, impietoso, degli occhi del mondo di fuori.

Il regista romano sperimenta una trasmedialità che non è posticcia, non rincorre la necessità di adattare sempre più la proposta a un pubblico che emerge da due anni di sole serie tv – ma usa il linguaggio dello schermo per dilatare lo spazio, per rendere tangibile il respiro del vento. Ma anche per immergersi pienamente dentro quello dei suoi protagonisti, consentendo allo sguardo dello spettatore una maggiore profondità ma anche la resa plastica della metafora di ciò che fa di noi, fisicamente, il rapporto con l’altro, capace di farci percepire minuscoli o giganti.

Una tessitura visiva in cui ombre e luci sono un suggestivo linguaggio specifico. Una architettura pensata dal regista romano, che trova in Mascino e Timi due interpreti non banali e ne sfrutta – e questo è forse l’aspetto ancor meglio riuscito – le qualità meno esplorate.

Lui perché – forse per la prima volta – è guidato a lasciare i panni dell’istrione per trovare una versione di sé a cui sono affidate, almeno all’apparenza, le redini della lucidità anche nel pieno della malattia d’amore, che mescola reale e immaginato.  Offre così una interpretazione misurata e intima che ne ribadisce una volta di più la vocazione magnetica.

Lei, in alcuni momenti francamente bravissima (non solo secondo il parere di chi scrive) è lasciata libera di sperimentare con vocalità e corpo e al contempo mantiene integra una vis interpretativa da classico, e di essere l’exemplum di chi la proiezione dello sguardo altrui sceglie consapevolmente di lasciarle andare, a proprio rischio e pericolo. Perché alla fine, da passeggiate di salute che sono amplessi travolgenti alla scoperta dei nostri luoghi più intimi, si emerge consapevoli che “non si guarisce mai da se stessi”.

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