Premessa. Per “demitizzazione” è qui intesa la demistificazione di qualcosa che si presenti come naturale e scontato pur essendo artificiale e arbitrario. Secondo le parole di Roland Barthes: “il suo scopo proprio [del mito] è quello di fondare una intenzione storica in natura, una contingenza in eternità […] il mito è costituito dalla perdita della qualità storica delle cose: in esso, le cose perdono il ricordo della loro fabbricazione” (R. Barthes, Mythologies). Oltre a ciò, mitologia deve essere qui intesa come una cornice di riferimenti in senso lato, all’interno della quale si localizzano le attività e le pratiche di una cultura particolare.
Questo non vuole essere un attacco al sapere scientifico, alla cultura scientifica o ai suoi esperti. Con questo brano si spera piuttosto di porre l’accento sui problemi del sapere: problemi legati alla sua produzione e al suo uso (o abuso) sociale. (f.z.)
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Prima di tutto, il dibattito politico è congelato da un inganno che riguarda la scienza. Questa parola è ormai passata a designare una impresa istituzionale, piuttosto che un’attività personale; la soluzione a una serie di rompicapi, piuttosto che parte dell’imprevedibile dispiegarsi della creatività umana. La scienza è ora un’agenzia di servizi fantasma e onnipresente che produce miglior sapere,proprio come la medicina produce migliore salute. Il danno causato da questo controsenso sulla natura del sapere è ancora più radicale del male causato dal mercimonio dell’educazione, della salute e del movimento. L’illusione della migliore salute corrompe il corpo sociale: e questo perché ciascuno si preoccupa sempre meno della qualità dell’ambiente, dell’igiene del suo modo di vita, della sua propria capacità di assistere il prossimo. L’istituzionalizzazione del sapere porta a una degradazione globale più profonda perché determina la struttura comune degli altri prodotti. In una società che si definisce attraverso il consumo del sapere la creatività è mutilata, l’immaginazione si atrofizza.
Questa perversione della scienza è fondata sulla credenza in due specie di sapere: quello, inferiore, dell’individuo, e quello, superiore, della scienza. Il primo sapere riguarderebbe il dominio dell’opinione, l’espressione di una soggettività, e il progresso non avrebbe niente a che farci. Il secondo sarebbe oggettivo, definito dalla scienza, diffuso dai suoi esperti e porta parola. Questo sapere oggettivo è considerato come un bene che può essere immagazzinato e costantemente migliorato. È una risorsa strategica, un capitale, la più preziosa tra le materie prime: l’elemento base di ciò che ci siamo messi a chiamare processo decisionale [decision-making, in e-taliano], quest’ultimo essendo anch’egli considerato come un processo impersonale e tecnico. Nel nuovo regno del computer e della dinamica di gruppo, il cittadino abdica a ogni potere in favore dell’esperto, solo competente.
Il mondo non è portatore di alcun messaggio, di alcuna informazione. È ciò che è. Ogni messaggio che concerne il mondo è prodotto da un organismo vivente che agisce su di esso. Qualora si parli di informazioni immagazzinate fuori dall’organismo umano, cadiamo in una trappola semantica. I libri e i computer fanno parte del mondo. Forniscono dei dati nel momento in cui un occhio è lì presente per leggerli. Confondendo il medium con il messaggio, il ricettacolo con l’informazione stessa, i dati con la decisione, noi releghiamo con disinvoltura il problema del sapere e della conoscenza al punto cieco dello spirito [1].
Intossicati dal credo in un futuro migliore, gli individui smettono di fare affidamento al loro giudizio e richiedono che gli si dica la verità su ciò che loro “sanno”. Intossicati dal credo in un miglior processo decisionale, hanno difficoltà a decidere in autonomia e perdono presto fiducia nel loro potere di fare. La crescente impotenza dell’individuo nel prendere da solo le proprie decisioni influisce sulla struttura stessa della sua attesa. In passato gli uomini si contendevano una rarità di risorse concreta, ora reclamano un meccanismo distributore per colmare una mancanza illusoria. Il rituale burocratico organizza il consumo frenetico del menù sociale: programma d’educazione, trattamento medico o azione giudiziaria. Il conflitto personale è privato di ogni legittimità, dal momento in cui la scienza promette l’abbondanza per tutti e pretende di dare a ciascuno secondo le sue mancanze personali e sociali, oggettivamente identificate. Gli individui, avendo disappreso a riconoscere i loro propri bisogni come a reclamare i loro propri diritti, divengono le prede della grande macchina che definisce al posto loro le loro mancanze e rivendicazioni. La persona non può più contribuire in prima persona al continuo rinnovamento della vita sociale. L’uomo giunge a diffidare della parola, si aggrappa a un sapere supposto. Il voto rimpiazza l’assemblea, la cabina elettorale i banchi e i tavolini dei caffè. Il cittadino si siede davanti allo schermo e tace.
Le regole del senso comune che permettevano agli uomini di coniugare e condividere le loro esperienze sono distrutte. L’utente-consumatore ha bisogno della sua dose di sapere garantito, accuratamente condizionato. Trova la sua sicurezza nella certezza di leggere lo stesso giornale del suo vicino, di guardare lo stesso programma televisivo che il suo capo. Si accontenta di avere accesso allo stesso rubinetto di sapere che il suo superiore, piuttosto che di cercare d’instaurare un’eguaglianza di condizioni che dia alla sua parola lo stesso peso di quella del suo capo. La dipendenza, ovunque accettata come se andasse da sé, dal sapere altamente qualificato prodotto dalla scienza, dalla tecnica e dalla politica, erode la fiducia tradizionale nella veracità del testimone e svuota di senso le principali maniere con cui gli uomini possono scambiare le proprie certezze. Fin di fronte ai tribunali, la perizia compete, in peso, con le testimonianze. L’esperto è pressoché ammesso come testimone patentato, ci si dimentica che la sua deposizione non rappresenta che il sentito dire, la opinione di una professione. Sociologhi e psichiatri accordano o negano il diritto alla parola, a una parola udibile. Ponendo la sua fede nell’esperto, l’uomo si spoglia in primis della sua competenza giuridica, quindi di quella politica. La loro fiducia nell’onnipotenza della scienza incita i governi e i loro amministrati a cullarsi nell’illusione di eliminare i conflitti suscitati da una evidente rarefazione dell’acqua, dell’aria, dell’energia; a credere ciecamente agli oracoli degli esperti che promettono miracoli moltiplicatori.
Nutrita dal mito della scienza, la società abbandona agli esperti persino la cura di porre i limiti della crescita. Ora: una tale delega del potere distrugge il funzionamento politico: alla parola, in quanto misura di tutte le cose, sostituisce l’obbedienza a un mito e infine legittima in qualche modo gli esperimenti condotti sugli uomini [2]. L’esperto non rappresenta il cittadino, fa parte di un élite la cui autorità si fonda sul possesso esclusivo di un sapere non comunicabile; ma, di fatto, questo sapere non gli conferisce alcuna attitudine particolare a definire i confini dell’equilibrio della vita. L’esperto non potrà mai dire dove si situa la soglia della tolleranza umana. È la persona che la determina, in comunità: nessuno può abdicare a questo diritto. Certo: è possibile condurre esperimenti sugli esseri umani. I medici nazisti hanno esplorato i limiti della resistenza dell’organismo. Hanno scoperto quanto tempo l’uomo medio può sopportare la tortura, ma questo non ha rivelato loro ciò che una persona può considerare tollerabile. Fatto significativo: questi medici sono stati condannati in base a un patto firmato a Norimberga due giorni dopo la distruzione di Hiroshima, alla veglia di quella di Nagasaki.
Ciò che un popolo può sopportare rimane fuori dalla portata di ogni esperimento. Si può dire ciò che avviene di un gruppo d’uomini particolari posti in una situazione estrema: prigionieri, naufraghi, cavie. Ma questo non può servire a determinare il grado di sofferenza e di frustrazione che una data società accetterà di subire a causa della strumentazione che avrà essa stessa forgiato. Certo: operazioni scientifiche di misura possono indicare che un certo tipo di comportamento minaccia un equilibrio vitale maggiore. Ma solo una maggioranza d’uomini di giudizio, i quali conoscano la complessità delle realtà quotidiane e ne tengano conto nel loro agire, possono comprendere come limitare i fini che si danno la società e gli individui. La scienza può mettere in luce le dimensioni del regno dell’uomo nel cosmo. Ma è necessaria una comunità politica di uomini coscienti della forza della loro ragione, del peso della loro parola, della serietà dei loro atti, per scegliere liberamente l’austerità che potrà garantire la loro vitalità.
Ivan Illich
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NOTE
[1] Si pensi alla nozione di inscripteur formulata da Derrida e ripresa nei seguenti termini da Latour: “[…] concentriamo l’attenzione su schemi e figure e dati, dimenticandoci delle procedure materiali che li hanno prodotti, o accordandoci per rigettarle nell’ambito della pura tecnica […] sarebbe un errore quello di prendere come punto di partenza le differenze fra ciò che in scienza è tecnica e ciò che non lo è […] assistiamo allora alla trasformazione di ciò che altro non è se non il mero risultato di una iscrizione in oggetto che si inserisce e aderisce alla mitologia vigente […] senza spettrometro, nessuno spettro: di fatto i fenomeni non solo dipendono dal materiale, ma sono interamente costituiti dagli strumenti impiegati nel laboratorio. E così abbiamo costruito, grazie agli strumenti d’iscrizione [inscripteurs], una realtà artificiale, di cui chi impiega tali strumenti parla come di una entità oggettiva. Questa realtà, che Bachelard chiama fenomenotecnica, assume l’apparenza del fenomeno nel processo stesso della sua costruzione tramite tecniche materiali” (S. Woolgar / B. Latour, La vie de laboratoire).
[2] “Il mondo entra nel linguaggio come un rapporto dialettico di attività e di atti umani; esce dal mito come un quadro armonioso di essenze” (R. Barthes, Mythologies).
Traduzione, note e premessa di Francesco Zevio