“Ben puoi veder che la mala condotta
è la cagion che ’l mondo ha fatto reo,
e non natura che ’n voi sia corrotta.”
Dante, “Purgatorio”, XVI, 103-105
“Il Male non è invincibile. Ciascuno è responsabile del male e del bene che fa. È la rassegnazione che permette al male di trionfare.”
Jean François Billeter, Le propre de sujet, Éditions Allia, 2021, p. 41-42.
Nel febbraio scorso sono andato a trovare mia cugina, che vive a Grenoble. Avevo un esame di lingua da dare proprio in questa piccola città del sud della Francia, e nel frattempo, ho approfittato per passare del tempo con la sua famiglia e fare un po’ il turista. L’ultimo giorno prima di partire, me lo sono tenuto per visitare la città. Visitare un luogo, specialmente se vi si parla una lingua che si ama, equivale in buona parte a trovare per prima cosa delle buone librerie e prendersi tutto il tempo di farci un comodo giro. Ma non solo, certo: quel giorno infatti, dopo pranzo, mi sono diretto alla funivia, che sta dietro ad un giardinetto (pieno di gruppetti di ragazzi che per lo più fumavano e immigrati che parlottavano al telefono lingue straniere), quattro cabine ovali che passano su e giù sopra la corrente del piccolo Isère, e salgono sulla collina che si staglia lì sopra, detta della Bastille per il forte che si confonde tra le rocce a metà dello stesso versante.
Da lassù, c’è una vista mozzafiato. Prima di scendere sono salito sul punto più alto, il tetto della costruzione in cemento della funivia, e mi sono seduto su una delle panchine a contemplare il vasto piano, sotto, di palazzi e strade, che si estende fino ai piedi della muraglia di montagne a tratti innevate, di fronte – una sagoma frastagliata sul cielo striato di nuvole altrettanto orizzontali, che si curvavano sopra di me. Nella frescura del primo pomeriggio, con la solita curiosa attesa, ho attinto causalmente dal ricco bottino di libri che avevo racimolato durante la passeggiata mattutina, e mi sono messo a sfogliare qualche pagina. In quell’istante, un ragazzone alto, con gli occhiali e dai monocolori e aerodinamici vestiti da trekking, si è seduto su una panchina di fianco a me, immergendosi nella vista del largo panorama. Io leggevo il mio libretto, e lui guardava trasognato le montagne; questa associazione mi ha fatto lampeggiare nella mente un’immagine che trovai tempo fa, riportata da qualche parte in un libro di Roberto Calasso, contenuta in un inno del Rgveda, la quale rivelerebbe “la costituzione duale della mente” e la dualità del soggetto:
“Due uccelli, una coppia di amici, sono aggrappati allo stesso albero. Uno di loro mangia la dolce bacca del pippala; l’altro, senza mangiare, guarda.”
L’ardore, p. 157
Non avendo la minima conoscenza dei vedici, non ho modo per commentare ulteriormente questa strana, seducente immagine – che vedevo concretizzata con me come una della sue parti; mi viene in mente però un altrettanto bel passaggio da un testo di Simon Leys, The View from the Bridge (“La vista dal ponte” – una serie di lectures tenute dal sinologo australiano-belga nel 1996), intorno all’esoticismo e allo scrittore belga Victor Segalen:
“Essenzialmente, [Segalen] credeva che l’esoticismo avrebbe potuto raggiungere la pienezza ‘in qualsiasi persona pensante, che affrontando se stessa, scopra la propria alterità, partecipando della sua propria diversità.’
Dunque, l’esoticismo per eccellenza lo si dovrebbe trovare […] non nel ritorno di un turista che ha fatto il giro completo del nostro pianeta, ma in quello di un vero viaggiatore, che ha trasformato progressivamente un viaggio alle estremità della terra, in una scoperta del proprio io interiore.”
Going abroad and staying home, in The View from the Bridge: Aspects of Culture, ABC books, 1996
Quello che tuttavia ancora non sapevo, è che, in uno dei libri che in quello stesso momento erano nel mio zaino – e che avrei preso in mano soltanto sul bus mentre tornavo da Grenoble –, avrei letto un immagine che era ancora più pertinente al il mio muto incontro con il ragazzone contemplativo. Si tratta infatti di uno degli ultimi sorprendenti lavori di un altro sinologo di origini svizzere, Jean François Billeter, uno dei maggiori interpreti contemporanei del pensiero di Zhuang Zi. Entrambi sinologi e scrittori, entrambi passati a distanza di pochi anni per il New Asia College di Hong Kong, e ancora entrambi studiosi appassionati di Zhuangzi, Simon Leys e Billeter hanno parlato uno dell’altro in alcuni loro scritti. In particolare, in occasione della pubblicazione di un libro di Billeter sull’arte della calligrafia cinese, al quale Leys ha dedicato un bellissimo saggio (One More Art, apparso su The New York Review Books nel 1996); e di un altro polemico libro sull’opera di Francois Jullien, Contre Francois Jullien, a cura di Billeter – sul quale nuovamente Leys intervenne, in sostegno di quest’ultimo.) Nell’opera si legge – in un paragrafo dove appare un termine, “il metodo sperimentale”, che indica una stessa preoccupazione per i temi trattati da Calasso in uno dei suoi ultimi, acuti libri: L’innominabile attuale – la descrizione di un altro, più ostile,tipo di dualismo che la modernità avrebbe prodotto:
“il metodo sperimentale […] fa astrazione dell’intuizione diretta e prova ciò che esso fa per via di esperienze ad hoc. […] per sondare la realtà, esso esclude i mondi che noi formiamo attraverso l’integrazione delle nostre percezioni e delle nostre esperienze, e quindi attraverso il linguaggio, e che danno un senso alla realtà. L’importanza che hanno preso questo metodo e le conoscenze scientifiche che esso ci ha procurato hanno provocato di conseguenza una scissione del soggetto: da un lato, in alcuni, il soggetto che studia per vie indirette la realtà, dall’altro il soggetto che, in tutti, si costituisce per la via dell’integrazione, del linguaggio e che crea dei mondi, ovvero il soggetto umano.”
E di seguito:
“Le conquiste scientifiche e tecnologiche del primo soggetto sono state tali da mettere in pericolo la formazione del secondo. Il pericolo e tanto più grande dacché l’accrescimento delle sue conquiste, divenuto esponenziale, obbedisce ormai completamente alla finanza, ovvero al capitale, il quale non ha altro fine se non il proprio stesso accrescimento. E’ urgente ristabilire il primato del secondo soggetto. Questo ristabilimento non si farà senza una decisione.”
Basterebbe questo breve passaggio per un recente lettore di quel libro di Calasso, per rendersi conto delle notevoli affinità – pur con sostanziali diversità – che presenta la riflessione portata avanti da Billeter ne Il proprio del soggetto (Le propre de sujet, Allia, 2021; si notino tra l’altro, i due cerchi concentrici che campeggiano sulla copertina, e che fanno vagamente pensare a quello disegnato da Michelstaedter, per descrivere l’“individualità illusoria” di chi ha la “persuasione inadeguata”…). In questo esiguo libretto si trovano, per esempio, frasi che sembrano venire dal pugno del primo:
“Queste moltitudini [di uomini]non hanno più tregua. Le loro vite si riducono all’istante. Esse non conoscono più il tempo, questo sentimento della durata che produce il pensiero.”
Ed è proprio a questo punto che Billeter discute di uno di quelli che chiama i “gironi” dell’inferno attuale: quello al livello del quale hanno preso piede “l’informatica e la rivoluzione numerica”, che anch’egli indica come una delle nuove minacce alla formazione del soggetto umano:
“La retegenera […] l’irragionevolezza, offrendo a ciascuno i mezzi di riunirsi con degli sconosciuti che hanno i loro stessi umori e i loro stessi pregiudizi — mentre la ragione nasce dall’incontro di punti di vista e di conoscenze, e dagli accordi che si ricavano dopo essersi ascoltati a vicenda. Così si formano dei raduni virtuali nei quali ci si mette alla gogna uno con l’altro. Sulla retetrionfa allo stesso tempo la vigliaccheria. Vi si sostengono cose delle quali non si risponderebbe affatto in presenza di altri. La propaganda vi si diffonde perché essa e primaria e gratuita. Sono così rovinate la ragione, la vita politica e il legame sociale. Tale regressione e causata, non dall’utile, ma dall’avidità di coloro che se ne servono per sfruttare le nostre debolezze.”
Nella quarta di copertina del piccolo libro, si legge questa semplice indicazione, che dice già molto:
“Salvare, non più solamente la libertà di giudicare, ma la capacità di fare, altrimenti detto salvare l’esercizio del pensiero.”
Per Billeter, infatti, con il venire meno del pensiero, questa “facoltà che abbiamo di arrestarci e di lasciarci sorprendere da qualche cosa che si forma in noi: una intuizione, un’idea, una catena di idee”, se ne va allo stesso tempo la libertà:
“Giacché esse sono la stessa medesima cosa. Entrambe si producono in noi nella stessa maniera. Noi le diamo due nomi differenti perché il pensiero si esprime per lo più con il linguaggio, laddove la libertà si realizza con la parola tanto quanto con un gesto, un atto, un’azione nella durata. Ciò non impedisce che ogni pensiero sia un atto di libertà e che ogni atto di libertà sia un pensiero.”
Ma questo breve saggio, che continua una riflessione cominciata da Billeter ormai da un decennio, in una serie di simili brevi e taglienti pamphlet (dei quali, si potrebbe dire, questo è una sorta di ulteriore “postilla”), la sviluppa in un modo che ispirerebbe più che altro ditradurlo. Cosa che, nonostante le mie relative competenze, mi sono permesso di fare per alcuni passaggi; di seguito un estratto dell’incipit.
*
“E’ da tempo che ho la sensazione di non avere più dei punti di riferimento o che ne abbiamo troppi, il che equivale a dire la stessa cosa. Come trovarne uno che sia sicuro, fosse anche solo per me? Lo potrei trovare nella storia? No, perché più il tempo passa, più la storia si accresce. E ce n’è troppa ormai.
Il punto sicuro che ho a lungo cercato è una conoscenza — una conoscenza del soggetto umano. Credo di averla trovata. Essa è il risultato dell’osservazione di ciò che noi siamo, non in ciò che ci differenzia l’uno dall’altro, ma in ciò che tutti noi abbiamo in comune: il fatto di essere ciascuno un soggetto che dice “io”. Assecondata con rigore, questa osservazione conduce ad un’idea giusta del soggetto, della quale penso oggi abbiamo il più urgente bisogno.
Si tratta di un nuovo genere di osservazione, che i filosofi non hanno mai considerato prima d’ora. Essa è nuova per il suo punto dipartenza, per il suo oggetto e per il suo metodo. Mi sembra dunque che sia da qui che si debba cominciare.
Il suo punto di partenza è l’idea di attività. Non di una qualche attività alla quale mi dedico, ma dell’attività in quanto dato primo e generale: tutto e attività, noi stessi siamo attività e il soggetto che dice ‘io’ si forma all’interno di questa attività. Vedremo in seguito come essa si formi e come sia che noi possiamo osservare in noi stessi la sua emergenza. Forse si dovranno percorrere tutte le conseguenze che traggo da questa prima idea e tornare su questo punto di partenza per comprenderla più pienamente.
Il metodo. Per osservare l’attività di cui siamo fatti, due operazioni preliminari sono necessarie: arrestare l’intenzione, disattivare il linguaggio. Sono due operazioni semplici e naturali, che pratichiamo tutti i giorni senza accorgercene. Bisogna che impariamo a trarne consciamente vantaggio. […]”
II.
Andando avanti, si legge sorprendentemente una digressione sulla differenza tra il primo Nietzsche, il giovane e geniale autore di Basilea (dove nello stesso periodo viveva e insegnava Burckhardt, per altro città d’origine di Billeter stesso), il quale egli giudica – diversamente da Calasso – più pertinente e attuale per noi, rispetto al secondo Nietzsche, il quale invece “non avanza più”: quando “il grande critico divenne un cattivo filosofo”. Scrive a questo proposito Billeter:
“il primo si e voluto filosofo e lo e diventato, il secondo ammirava i grandi filosofi e teneva il pensiero di alcuni tra di loro per ciò che il genio umano ha prodotto di più elevato, ma diffidava come la peste dei filosofi della storia, non potendo quest’ultima essere giudicata che da punti di vista essi stessi storici, parziali e datati. La sua vocazione era di farla vedere, quanto più possibile, in ciò che ha generato di migliore e di peggiore. Per farla vedere, era necessario sforzarsi di comprenderla, quanto più possibile. A questo doveva limitarsi secondo lui lo storico, di modo che, quando Nietzsche si fece profeta, Burckhardt cessò di approvarlo.”
Il richiamo a Calasso lo si sente anche quando Billeter parla del ruolo centrale dell’attenzione; oppure quando parla di quello delle immagini nel pensiero – tema presente in tutta l’opera di Calasso –, e della visione (“L’immagine, che prolifera e invade oggi le nostre vite, non è solamente il contrario della visione: essa la uccide, così come uccide il pensiero”), che egli pone “al di sopra del discorso”:
“Il senso della visione è scomparso dalla filosofia e, più generalmente, dalla vita intellettuale. Non abbiamo più coscienza della facoltà che noi abbiamo di formare, attraverso l’immaginazione, delle immagini giuste della realtà. L’intellettualismo attuale si chiude nel linguaggio, o i linguaggi.”
E sorprende ancor più quando, arrivati in fondo al libro di Billeter, si legge in conclusione della “rotta” che si auspica potremo intraprendere nel futuro:
“Che la conoscenza del soggetto dia nascita al progetto di cui ho parlato, che questo progetto sia compreso e promosso da un numero crescente di Europei e che nasca una paideia, questa educazione dell’uomo che parse necessaria ai pensatori dell’Antichità perché la conoscenza sia il fermento della vita sociale, ambizione che la filosofia moderna ha smesso di fare propria. Si tratterebbe meno di educare, e meno ancora di ‘formare’, quanto di fare in modo che ogni soggetto si formi, per lui stesso e per gli altri. Si sarebbe allora all’opposto della macchina attuale, che mantiene l’ineguaglianza tra le classi di diplomati, che la fanno funzionare in cambio di svariati vantaggi, attraverso i loro diversi saperi specializzati, e tutti gli inferiori che la mandano avanti a loro spese perché non hanno altra scelta. Tale è secondo me la visione di cui l’Europa ha bisogno per orientarsi e che ha bisogno dell’Europa per realizzarsi, se dovrà mai farlo da qualche parte.”
III.
Vale la pena sottolineare ancora come Billeter (come già riportato più sopra) si soffermi più volte sul fatto, non secondario, che questo progetto potrà soltanto muoversi a partire da una decisione.
“Dobbiamo prendere una decisione. Essa deve avere due effetti: metterci nella condizione di combattere i mali attuali e prossimi, non più nel disordine e nella confusione, ma in modo coerente, e introdurre il momento positivo di ciò che vogliamo. Saremo infatti coerenti soltanto se la nostra azione deriverà da una decisione, e questa decisione sarà operante soltanto se saremo noi stessi a lottare per primi, non più contro tutto ciò che non vogliamo, ma per ciò che vogliamo.”
E più avanti: “Non saremo coerenti se non sapremo ciò che vogliamo in ultimo luogo.” (In un’opera precedente, Billeter citava André Gorz: “Non dico che queste trasformazioni si realizzeranno. Dico soltanto che per la prima volta possiamo volere che esse si realizzino.”)
È comico che, nella libreria di mia cugina, qualche giorno prima della mia partenza, ho trovato un libro di un autore di cui ho sentito spesso parlare (e che tra gli altri Calasso stesso tratta ad un certo punto ne L’innominabile attuale: “A tali esseri si deve gratitudine, perché permettono di sapere con esattezza con che cosa ci si trova a che fare”): Sapiens: a brief history of humankind di Yuval Noah Harari. Dato lo spessore del volume, ho potuto soltanto sfogliarlo, e dare giusto un’occhiata alle righe finali (vizio che ho finito per contrarre con i libri di non-fiction, specialmente verso i quali nutro qualche sospetto), righe alle quali non ho potuto non pensare mentre leggevo questi pensieri di Billeter. La conclusione di questa ambiziosa “storia dell’umanità” è infatti praticamente identica a quella suggerita da quest’ultimo:
“The only thing we can try to do is to influence the direction scientists are taking. Since we might soon be able to engineer our desires too, perhaps the real question facing us is not ‘What do we want to become?’, but ‘What do we want to want?’ Those who are not spooked by this question probably haven’t given it enough thought.”
(– Anche se a me suona tutto un po’ come delle eco di quella domanda del Vangelo di Giovanni (1, 35-42): “Che cosa cercate?”)
IV.
Una coincidenza ha voluto che io stessi ascoltando il concerto per violino in re maggiore di Beethoven, quando sono andato a cercare nel mio lettore Kindle un altro libro di Billeter, che comprai la scorsa estate per pura curiosità (e per il costo piuttosto accessibile): Pourquoi l’Europe: Reflexions d’un sinologue (Allia, 2020). Ai tempi, devo ammettere, non andai oltre i primi capitoli, che abbandonai poco dopo per letture che mi sembravano più urgenti – ma non avevo idea di che cosa ci potesse essere oltre la metà di quello, che sembrava essere un semplice pamphlet di un anziano sinologo sulla realtà politica cinese. Mentre in una nota ne Le propre du sujet, Billeter rimanda ad altre sue opere, nelle quali ha sviluppato la stessa riflessione sul “soggetto” – e fra queste proprio Pourquoi l’Europe. Quest’ultimo è un tour de force intellettuale che parte dalla Cina antica e la sua tradizione politica, passando per la proposta di un progetto politico incentrato sull’idea di una Repubblica europea (l’Europa è, secondo Billeter, “meglio armata per resistere” alla minaccia dell’ordine, “imparentato” a quello creato dal regime cinese, “che il grande capitale sta per imporre nella nostra parte di mondo”), per poi – non prima di aver accennato favorevolmente alla teoria secondo la quale Shakespeare non era niente meno che l’italiano Giovanni Florio (piccola eretica digressione) – passare alla storia della musica, e a quella che scopro essere una delle principali fonti della sua riflessione intorno al sujet, Ernest Ansermet: un direttore d’orchestra (nonché matematico) svizzero di cui non sapevo nulla, vissuto fino a poco dopo la prima metà dello scorso secolo. Oltre a condurre musica, Ansermet fu infatti l’autore di un’opera incompiuta, Les fondements de la musique dans la conscience humaine, una esplorazione filosofica del fenomeno musicale – la quale tra gli altri fu elogiata, come riporta Billeter, da pensatori quali Hannah Arendt – da cui il sinologo trae grande ispirazione. L’eccitazione, ma anche lo spossamento, che il lettore deve provare dopo questa corsa piena di meraviglie nei secoli e nelle culture più diversi, corredata per di più da allettanti proposte di natura politica, mi ha fatto apprezzare di esservi tornato soltanto dopo la lettura de Le propre du sujet. Questo agile libretto non poteva infatti che essere la conseguenza dell’ambiziosa visione delineata nel primo. Come Billeter stesso scrive in conclusione a Pourquoi l’Europe:
“Ecco dunque alcune delle riflessioni che intendevo sottomettere all’attenzione del lettore. Esse sollevano delle questioni così vaste, me ne rendo conto, che ci vorrebbe un concilio per essere dibattute, e questo concilio finirebbe senza dubbio nella confusione. Non ho fatto altro che presentare un certo modo di vedere le cose e riterrei di aver fatto un lavoro utile, se essa potesse nutrire la riflessione altrui – dei sinologi e dei non sinologi, degli europei e dei cinesi.”
Con il nuovo pamphlet, invece, il discorso di Billeter si fa più ispirato e coinciso:
“Altri amici mi rimproverano di essere troppo breve. Io gli rispondo diversamente: che si scrive troppo, o che ci sarebbero tante cose da portare avanti che preferisco astenermi, o che ho bisogno della concisione per essere certo di tenere il punto sicuro.” “Ammiro Lucrezio, ma l’espressione lapidaria ha la mia preferenza. Le sentenze di Eraclito ne sono l’esempio più bello.”
V.
Si può sovvertire un ordine socio-economico, cambiare qualche cosa, semplicemente scrivendo, stando seduti ad una scrivania, davanti ad un laptop, immersi tra parole e libri? Serve a qualcosa mettersi a fare queste riflessioni, di questi tempi, e di fronte all’enormità delle sfide che dovremo affrontare? Perché puntare così tanto sulla conoscenza di sé, o sulla conoscenza in generale? Domande che alcuni amici di Billeter gli hanno sottoposto, e ai quali egli ha ribatutto dicendosi convinto che, nel “disordine” delle “analisi, [del]le avvertenze, [del]le proposte” attuali, soltanto “un atto, non della volontà, ma dell’intellezione” potrà guidarci. Questo consisterà nel:
“Riconoscimento del nostro bisogno e desiderio più fondamentale, che è di diventare soggetti. Quando una tale decisione intellettuale si impone a qualcuno, essa può avere degli effetti sugli altri, e altri ancora, e forse in numero crescente. […] Una tale [giusta idea del soggetto] è necessaria perché nessuna società umana può vivere senza un certo grado di pensiero comune, e questo pensiero comune contiene necessariamente, sotto diverse forme, un’idea di ciò che è l’essere umano.”
E ancora:
“Io rispondo loro che qualche persona mi sarà forse grata di aver loro indicato l’imperativo primo a partire dal quale essi potranno, attraverso una gerarchizzazione, ordinare tutti gli altri nel tempo che abbiamo davanti.”
Sono altrettanto persuaso che sia necessario tornare a mettere questa idea (“di ciò che è l’essere umano”) al centro della riflessione sull’attualità, nonostante possa sembrare paradossale che questo può orientarci a livello pratico. Questo corrisponde del resto all’ideale e al modo di agire del saggio secondo, per esempio, il Lao Zi:
“Le cose più difficili del mondo prendono avvio da cio che e facile; le cose più grandi del mondo prendono avvio da cio che e minuto. Perciò il Santo non fa mai niente di grande, e così si può compiere il grande”.
Tao te ching, LXIII
Ma se, infatti, è vero che bisogna ripartire da un’idea giusta del soggetto, siamo così sicuri che quella concepita da Billeter sia quella completa e finale? E che cos’altro può fare, del resto, un nostalgico dell’attuale? Come scrive Dostoevskij alla fine del penultimo dei suoi romanzi, L’adolescente: “Intuire e… sbagliare.” Lanciare uova e colpire un muro, come dice il proverbio cinese. E qualcuno dovrà pur sempre esserci a farlo, fosse anche solo per ricordare agli uomini quale sia la normale funzione (lo statuto ontologico) delle uova e dei muri – cosa che sembra invece cadere regolarmente nell’oblio.