Il titolo inglese del libro è “Theft by Finding”, ovvero: furto di oggetti rinvenuti. È questo che fa da quarant’anni con i suoi diari?
“È un modo di dire inglese che si usa quando trovi una cosa di valore e te la tieni.
Come in un diario, dove annoti solo quel che ti interessa. Iniziare è facile: continuare meno. Molti smettono di tenere un diario perché guardarsi indietro può essere imbarazzante. Io stesso non mi rileggo per anni”.
E com’è stato farlo adesso?
“Evitando a lungo di rileggermi sono meno imbarazzato delle sciocchezze fatte. Ma i diari ti permettono anche di ritrovare cose che altrimenti andrebbero dimenticate. Mia sorella Tiffany si è suicidata nel 2013: è stato bello ritrovare nei quaderni le cose buffe che lei mi aveva detto, le piccole cose fatte insieme. Tutti abbiamo foto di gruppo: ma un diario risveglia ricordi più profondi”.
Centosessantacinque taccuini: li tiene tutti insieme?
“Li prendevo dello stesso tipo e li inzeppavo di foto. Ora li ho ceduti all’università di Yale, e ne sono un po’ pentito. Dal 2001 però ho cambiato metodo: scrivo sul computer stampando il risultato finale”.
Dalle droghe al sesso facile con uomini che poi le rifilavano numeri di telefono sbagliati per non farsi rintracciare. Con questo libro non teme di essersi esposto troppo?
“Non m’importa se la gente sa che a 23 anni prendevo molte droghe: le cose che fanno davvero male le ho tenute per me. No, non ho paura di quello che possa pensare il pubblico: e per non dare a chi mi ha ferito la soddisfazione di saperlo. Se la gente sa che non mi piace Donald Trump, ok. Ma svelare a certa gente il tipo di potere che ha avuto su di me, ecco, quello sì che mi avrebbe fatto sentire esposto”.
Ecco, Trump. Lei dice che ride quando lo sente dire che l’America è tornata grande.
“I fan di Trump sostengono che il mondo rideva dell’America ai tempi di Barack Obama. Io oggi vivo per metà del mio tempo fuori dagli Stati Uniti e posso testimoniare che è esattamente il contrario: noi americani all’estero siamo imbarazzati e ci scusiamo continuamente. Proprio come capitava a voi italiani ai tempi di Silvio Berlusconi”.
La scorsa primavera ha pronunciato un discorso alla consegna dei diplomi dell’Oberlin College in Ohio. Un onore che negli Usa è rivolto a grandi personalità, che spesso hanno pronunciato durante la cerimonia discorsi memorabili: da Steve Jobs a J.K Rowling. Il suo messaggio sembrava più terra terra: “Siate voi stessi: a meno che non siete degli stronzi”.
“Volevo dire che se gli altri ti evitano magari non è sempre colpa loro: magari è colpa tua. Nessuno di noi sa chi è davvero, e tanto meno se sia uno stronzo: a meno che il mondo non glielo faccia capire. Ora, è difficile dar consigli ai giovani… E comunque io stesso non credo di essere mai stato uno stronzo: Hugh non starebbe con me da tanto tempo. È una persona per bene: mi avrebbe già lasciato”.
Lei descrive la vostra relazione come quella di una coppia che non vuole saperne di sposarsi. Eppure ha sempre sostenuto il matrimonio gay.
“Volevo che il matrimonio gay diventasse legale per stabilire un diritto. Ma penso che nessuno poi debba essere obbligato a sposarsi. Voglio avere il diritto di non farlo”.
Quant’è cambiata l’America nei 40 anni ripercorsi dai diari?
“A rileggermi, la cosa che mi ha colpito di più è che il telefono, ai tempi, squillava continuamente: e tu non sapevi mai chi ti stava chiamando. Chi è cresciuto nell’epoca dei social non capisce di che cosa parlo. Se volevo evitare qualcuno, dovevo dire agli amici: fai prima 3 squilli, altrimenti non rispondo… E poi, naturalmente, l’America era un paese meno diviso. Oggi hai tutti questi canali in onda ventiquattr’ore al giorno e sette giorni su sette riempiti a forza di parole. Trasformano in cose enormi anche un topolino. E hai così tanta scelta che puoi guardare solo i canali che ti confermano quello in cui credi già. Anti Trump, pro Tump. Oggi poi c’è questa ossessione per il politicamente corretto”.
Ma come: proprio lei, liberal e gay, si scaglia contro?
“Avevo scritto per il New Yorker di aver visto un tizio in uno Starbucks che portava una scimmia vestita con uno di quegli abitini rosa che indossano le bimbe messicane in chiesa. Apriti cielo: “Non puoi scriverlo: Trump ha diviso i piccoli messicani dalle loro famiglie, qualcuno potrebbe offendersi”. Ma io non stavo insultando i messicani, volevo solo dare l’idea del vestito. Se avessi scritto che indossava un basco francese nessuno avrebbe protestato. Ma ormai gli editori temono che qualcosa possa essere presa fuori contesto e twittata. Lo stesso pubblico è diventato ipersensibile”.
Anche i suoi lettori?
“Firmo libri tutte le sere. Mi fermo a chiacchierare e chiedo sempre: “Ci siamo già incontrati?”. Perché molta gente torna e ha piacere di essere ricordata. Lo dico a una ragazza americana l’anno scorso. E lei si offende: “Dice così perché per voi noi asiatici siamo tutti uguali”. Ma cos’è questa diffidenza verso il prossimo? La gente non sa più cosa significhi il dolore. Anni fa qualcuno mi diede un pugno sul naso chiamandomi frocio: ecco, quello sì che mi fece male. Oggi mi chiedono continuamente: “Siete una coppia gay?”. Beh, non fa male: è una domanda che merita risposta. Invece oggi tutti pensano di avere il diritto di sentirsi feriti. Sono tempi duri, e non solo per la satira. Proprio mentre ai politici è permesso di dire cose terribili”.
Ancora Trump?
“Prendete in Inghilterra Boris Johnson: l’ex ministro ha equiparato le donne velate alle buche delle lettere. Ma a me hanno detto, mentre scrivevo un articolo di viaggi, che non potevo equiparare le donne musulmane col velo integrale a fantasmi. Io descrivo quel che vedo e mi chiedono di autocensurarmi. I politici invece finiscono sulle prime pagine dei giornali per le cose orribili che dicono: e la gente li vota proprio per quello”.
Su “The Atlantic” un critico la accusò di un approccio alla realtà troppo libero: i suoi racconti travalicherebbero il confine fra fiction e non fiction.
“Quando scrivo per riviste come il New Yorker tutto viene verificato. Sono stato al poligono con mia sorella Lisa, e ne ho scritto in un articolo sulle armi: e loro hanno chiamato Lisa, il poligono, perfino la compagnia aerea per verificare l’orario del volo. Ma in letteratura è diverso: so come mettere insieme una storia. E questo vuol dire anche tralasciare qualcosa se non serve alla narrazione. Insomma, c’è la vita reale e poi c’è la storia della vita reale: chi può dire che sia meno vera?”.
Il libro e l’autoreL’americano David Sedaris (1957) torna in libreria dal 28 agosto con Ragazzi, che giornata! Diari 1977-2002 (Mondadori, 468 pagine, 21 euro). Sedaris sarà a Mantova, il 7 settembre, per Festivaletteratura (ore 22.30, Palazzo San Sebastiano)