1949-2021 L’autore scomparso ieri a 72 anni. Malato da tempo, domani avrebbe ricevuto il riconoscimento alla carriera
di Paolo Di Stefano
Addio allo scrittore alla vigilia del Campiello. L’esordio nel segno di Calvino, i romanzi, il volo
Daniele Del Giudice se n’è andato alla vigilia di un riconoscimento che comunque sarebbe arrivato «postumo», il Premio Campiello alla carriera, che gli è stato assegnato in quest’ultima edizione. Non sarebbe comunque andato a ritirarlo, perché viveva da anni in una casa di riposo, colpito precocemente dall’Alzheimer, la malattia della vecchiaia. Quasi una beffa per uno scrittore che per lungo tempo, e ben oltre i più ragionevoli limiti anagrafici, è stato inserito dal marketing giornalistico-editoriale nella categoria dei «giovani narratori italiani» anni Ottanta, tra i quali Tabucchi, Busi, Cordelli, Montefoschi, Orengo, De Carlo, Rasy, De Luca. In realtà non avevano in comune quasi nulla se non l’anagrafe, e l’aver sentito solo il profumo della neoavanguardia, sfiorata invece da scrittori poco più anziani come Celati e Vassalli. Erano quelli che venivano prima della generazione Tondelli (classe ’55), a proposito dei quali si parlava di un ritorno alla narratività dopo gli sperimentalismi.
Fu Daniele Del Giudice il primo a telefonare da Venezia in casa editrice Einaudi il pomeriggio in cui Calvino ebbe l’ictus: «Italo sta morendo». Era lui, non ancora quarantenne nel 1986, il più giovane consulente di casa Einaudi, accanto agli anziani Natalia Ginzburg, Cases, Segre, Garboli: a lui si deve il patrocinio di scrittori più giovani come Mario Fortunato e Andrea Canobbio. Fu una vera staffetta con Calvino, che gli aveva passato il testimone sin dal 1983 scrivendo la quarta del suo romanzo d’esordio, Lo stadio di Wimbledon.
Del Giudice nacque nel 1949 a Roma, da padre svizzero dei Grigioni morto quando Daniele era un bambino. La madre si risposò e il bambino, per anni in collegio, non ebbe un’infanzia felice. Ricordava che suo padre prima di morire gli regalò una macchina da scrivere, una enorme Underwood americana, e una Bianchi 28, una bicicletta. Non andava a scuola, il piccolo, preferiva pedalare la mattina sull’Appia e sui colli intorno a Roma e battere a macchina con due dita il pomeriggio: la mattina fantasticava in bicicletta e il pomeriggio scriveva quelle fantasie. Non ha mai terminato gli studi universitari, cominciando presto a collaborare per i giornali (a «Paese sera» nacque l’amicizia con Franco Cordelli), prima di spostarsi a Milano e poi definitivamente a Venezia, dove aveva sposato l’arabista e islamologa Ida Zilio Grandi, che da un paio d’anni dirige l’Istituto italiano di Cultura di Abu Dhabi.
Lo stadio di Wimbledon fu una rivelazione: racconta il viaggio-inchiesta di un giovane sulle tracce della figura di Bobi Bazlen, della sua «non scrittura» e del silenzio che caratterizzò la vita dell’intellettuale triestino fondatore della Adelphi. Il vero fuoco è però l’interrogazione su quella «complicatezza leggera» che, secondo un ideale calviniano, è la creazione letteraria. Qualcuno vide in una certa freddezza troppo «intelligente» il limite di Del Giudice: ma in realtà la prosa esatta, trasparente, i dialoghi rarefatti in un intreccio pressoché impercettibile intensificano la forza del mistero, dell’assenza, da cui si libera l’energia creativa del protagonista sottraendolo all’afasia narrativa di Bazlen.
Mentre Lo stadio di Wimbledon è un romanzo che interroga la memoria degli amici di una persona assente, Atlante occidentale (1985) è la storia di una amicizia reale, quella nata dall’incontro, in un piccolo campo di aviazione svizzero, tra l’anziano scrittore Epstein e Brahe, un giovane fisico italiano: i due sono accomunati dalla passione del volo, la stessa passione che aveva il pilota dilettante Del Giudice. La scena di Atlante occidentale è un laboratorio ginevrino, il Cern, in cui si sta sperimentando un anello di accelerazione che permetterà di rendere visibili infinitesimali particelle di materia. Affiora sempre in superficie il confronto tra le due culture, ma Atlante si propone anche di «inseguire la metamorfosi dell’uomo europeo, la nuova percezione che egli ha di sé e del mondo che lo circonda», restituendo alla letteratura la sua «vera vocazione di scoperta» tra il vedere e il sentire. Sono i temi su cui spazierà il magnifico racconto su una cecità incombente, Nel museo di Reims (1988).
Precisione della scrittura nel rendere i fenomeni fisici come nel restituire i sentimenti, le emozioni: sono questi i tratti distintivi della prosa di Del Giudice anche quando affronta il motivo autobiografico del volo nei racconti di Staccando l’ombra da terra (1994). Qui l’esperienza aviatoria personale si apre ad altre storie, come la caduta di un aereo nuovissimo sulla Conca di Crezzo per via del gelo. Ma soprattutto la tragedia di Ustica, resa attraverso i drammatici dialoghi del «voice recorder». È un libro sulla grammatica del volo come grammatica della vita, sul rapporto tra allievo e maestro, sull’etica dell’aviatore come etica esistenziale, sull’equilibrio delicato tra istinto e competenza tecnica, sullo sguardo dall’alto, sul volo della mente, sul tempo. E sul tutto aleggia la metafora della letteratura. I racconti di Mania (1997) sono un’altra prova che la misura breve è il suo abito stilistico (e filosofico) ideale, una misura breve che comprime la compresenza temporale e complica la sintassi: anche qui con testi bellissimi, giocati su un’ampia tastiera di stile e di visioni, che mostrano ormai una qualità ritmico-musicale della scrittura. Nel 2000, Del Giudice scrive per e con Marco Paolini un testo teatrale sull’Itavia lavorando sugli atti e sui documenti. Si era intanto offerto con entusiasmo all’organizzazione degli eventi veneziani di «Fondamenta» e all’insegnamento allo Iuav, l’università veneziana di Architettura. Era anche un grande saggista, Del Giudice: l’introduzione a Senilità di Svevo, gli scritti su Conrad (che considerava un suo autore di riferimento) e su Stevenson, su Calvino e Volponi, sulla traduzione entreranno in un prossimo volume di scritti letterari.
Orizzonte mobile è del 2009 ed è di fatto l’ultimo suo libro, anche se già Del Giudice entrava nel buio (o nel bianco) della malattia: narra l’esperienza della sua spedizione antartica e altri viaggi remoti nel tempo e nello spazio. A Claudio Magris, che lo incontrò per il «Corriere», disse: «Per me narrare è stabilire relazioni, la relazione è l’essenza del racconto… Se l’io è sparito rimane però il suo dove, la geografia ha un cuore più resistente della storia, ha un nucleo di perennità. Nella percezione le cose non sono affiancate ma simultanee e così dovrebbe essere nella narrazione».