Derby infiniti
di Franco Camarlinghi
Non bastava Omicron, l’ultima variante del virus, con la crescita tumultuosa dei contagi: no, era indispensabile affrontare un’altra malattia che si sarebbe fortunatamente risolta. Massimo D’Alema ci ha segnalato la notizia (ovviamente buona per sé stesso): il Pd è guarito dalla feroce sindrome del renzismo ed è pronto a riaccogliere lui, Bersani e il resto della compagnia cantante. Come è nello stile di D’Alema non c’è ombra di dubbio sulla perfezione del proprio comportamento politico dal momento della scissione a oggi: la ragione ce l’aveva lui, punto e basta. D’Alema deve essere di quelli che appena possono si guardano nello specchio e invece di chiedere chi è la più bella del reame, domandano chi è il meglio fico del bigoncio e rimarrebbero molto male se lo specchio dicesse un altro nome. Il sullodato non aveva però fatto i conti con l’origine del renzismo, cioè Matteo Renzi, il quale è un altro che il tempo libero lo passa di fronte allo specchio del suo cassettone rignanese, tessendo le lodi di se stesso e della sua irraggiungibile primazia politica e di tanto altro. Detto e fatto: alla sfida dalemiana, contrattacco renziano e via ad andare, per la gioia dei cronisti di politica esausti per le astratte polemiche sul Colle, ansiosi di cambiare argomento, ancorché inutile e anacronistico come pochi. Lasciando da parte giudizi ed esami adeguati sul ruolo che i nostri due eroi hanno avuto nella cronaca politica italiana, giungendo entrambi al governo del Paese, c’è qualcosa che ha del curioso nella polemica di cui parliamo.
Sia D’Alema che Renzi hanno una caratteristica in comune: una volta che vanno a farele cose per conto loro e si fanno un partito a immagine e somiglianza, non prendono un voto: per il primo si tratta di una certezza verificata nelle precedenti elezioni, per il secondo di sondaggi che però sono troppo ripetuti per essere i voti molto diversi nelle urne. Tanta intelligenza, tanta abilità (per quanto riguarda Matteo Renzi non se ne può dubitare, dalla fine del governo gialloverde in poi), ma alla fine se uno non rientra nel Pd, di prospettive concrete ne può solo sognare a occhi aperti con Pierluigi Bersani, mentre per l’altro o qualcuno gli crea un centro che gli assicuri una qualche parte possibile o non gli
resterà che aprire un’università privata in qualche deserto arabico. Sul momento, a dire la verità, la figura peggiore sembra averla fatta D’Alema che ha dato fra l’altro l’impressione di fare tutto ciò più contro Draghi che altro, definendolo uno scudo nelle mani della finanza internazionale. Soprattutto si è determinata una reazione di tutto il Pd, lettiano, ex renziano e via di seguito che si è ribellato all’idea di essere un inconsapevole convalescente di una malattia che lo aveva istupidito.
La reazione, contro una definizione che alla fine si è rivelata un’offesa insopportabile per chiunque, è stata particolarmente forte e diffusa proprio in Toscana che se ha conosciuto per molto tempo una delle più forti presenze dalemiane, ha poi dato le ali a Matteo Renzi e ha costretto Massimo D’Alema a cercare rifugio in quell’Articolo 1 di cui nessuno ha mai scritto il seguito.
Però, alla fine, stiamo sempre a parlare degli stessi: in Italia non perde definitivamente mai nessuno, così è per Renzi, così è per il suo nemico e tutto sembra un film già visto. Supponendo che i fratelli Coen non lo vengano a sapere, potremmo dare un titolo alla vicenda che abbiamo ricordato, contrario a quello di un loro famoso lavoro: «C’è un paese per vecchi» ed è l’Italia dove, in politica, è tutto un «Rieccolo», ma non si tratta del Fanfani di Montanelli, purtroppo!
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