Dal virus ci salverà la poesia

Massimo Recalcati

Non ricordo negli ultimi anni una primavera così bella. Mentre il mondo deve affrontare una emergenza mai conosciuta prima. Pensiamo alla fase due come ad una lenta risurrezione dal trauma. La nostra fantasia vorrebbe tagliare finalmente i ponti con l’orrore, dimenticare l’incubo, ricominciare, pensare l’inizio come un ricupero del mondo com’era prima del virus, la sua guarigione come una restitutio ad integrum. Ma questa è, appunto, solo una fantasia infantile e fatalmente regressiva che vorrebbe sopprimere l’asperità della terra di mezzo: il disastro non è infatti alle nostre spalle perché vi siamo e vi saremo ancora tutti immersi per molto tempo.
Il tempo critico e doloroso del trauma non è finito ma, anzi, condizionerà pesantemente il nostro avvenire. Sicché la riapertura (fase 2) non è la semplice antitesi della tesi della chiusura (fase 1), per la semplice ragione che l’intrusione del virus nelle nostre vite non si è esaurita. Il ritorno all’aperto, come stiamo sperimentando in modo più o meno perturbante in questi giorni, non segna affatto un taglio netto con il trauma che abbiamo vissuto, ma ci confronta con una sua nuova versione. Uscire di nuovo non coincide con l’uscire dal pericolo, ma con l’entrare in esso in una relazione differente. Questo significa che la ripartenza non è una regressione a com’era prima, ma implica necessariamente un nuovo traumatismo.
Siamo obbligati ad un’operazione difficile, anche emotivamente e psicologicamente, di integrazione. La sicurezza del confinamento deve lasciare il posto ad una inedita convivenza forzata con il virus. Riapriamo perché è necessario per evitare che il nostro Paese finisca in una disperata terapia intensiva, ma riapriamo nell’inevitabile alterazione delle nostre abitudini. Con un ulteriore problema: la transizione che caratterizza questa fase non può essere pensata come un percorso già tracciato, definito con chiarezza, ma solo come una necessità. Nessuno può dire con certezza quello che accadrà; gli stessi esperti mostrano che la loro cultura rivela i propri limiti dove inizia quella della responsabilità individuale e collettiva che è e sarà la vera protagonista di questa strana convivenza.
Lo psicoanalista Bion parla di “cambiamento catastrofico” per descrivere un tempo di riassestamento dell’organizzazione psichica di fronte ad uno scenario impensato. È necessario abitare il tempo dell’incertezza e della paura per trovare un varco nell’incertezza e nella paura. È necessaria la capacità di sostare di fronte all’indefinito senza precipitarsi a trovare soluzioni improvvisate che potrebbero rivelarsi più dannose del male che intendono curare. In questo contesto di precarietà però un punto mi pare certo: alla potenza inimmaginabile del trauma che ha devastato le nostre vite, bisogna rispondere con una potenza reattiva altrettanto inimmaginabile. Questo significa che la de-burocratizzazione non deve essere solo una misura tecnica necessaria per snellire il funzionamento delle nostre istituzioni, ma deve coincidere con l’acquisizione di una postura mentale inedita che ci consenta davvero di distinguere l’essenziale dall’inessenziale. Dovremmo forse guardare al pensiero artistico per imparare a stare all’aperto in una condizione di incertezza e precarietà, senza rinunciare alla creatività, all’invenzione, all’immaginazione? La politica per prima: non si pieghi alla scienza, come accadde in passato con la magistratura o l’economia, ma sia capace di invenzione, di pensieri grandi, di parole all’altezza del dramma che stiamo vivendo. Impari dall’arte a trasformare le ferite in poesia, a rispondere al trauma con la generazione di forme di esistenza nuove. Se ci deve essere riapertura è la politica che dovrebbe dare l’esempio di come inaugurare una stagione inedita nella quale il cambiamento non sia vissuto come un pericolo dell’ordine costituito, ma come una grande possibilità. È la partita che sta stringendo l’Europa all’angolo: la sua esistenza si rivelerà solo burocratica o saprà dare prova della sua forza e del suo coraggio? L’occasione che le nostre istituzioni hanno è storica: ricuperare la loro dignità mostrandosi in grado di farsi umane, commoventi, misteriose e poetiche, come direbbe Pasolini, oppure naufragare in un mare di carta. —

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