L’eletto che ha giurato su una Costituzione nata dalle ceneri della Roma in camicia nera e dalla gehènna di Salò ma che ha spergiurato riprendendo, nel giorno del compleanno di Mussolini, una delle famose frasi del dittatore, e per di più affacciandosi al balcone del Municipio di Forlì, proprio là dove il Duce aveva assistito all’uccisione di un gruppo di partigiani.
Era il «capo della banda dei cavolfiori» (Bertolt Brecht) che, di fronte alle critiche di Roberto Saviano, osò insinuare che la scorta assegnata al romanziere potesse essere «rivista» e, nel frattempo, gli «mandava un bacio» con il sogghigno e la velata minaccia di solito in uso tra i biscazzieri dei film di Scorsese e gli scagnozzi del clan Corleone.
Era l’«uomo forte» che ai «sommersi e ai salvati» (Primo Levi), a cui chiudeva i porti italiani, indirizzava battute indecenti da bagnino e aggiungeva, solo per loro, una nuova categoria alla classificazione platonica dei vari modi di essere umani: esseri marini mezzi vivi e mezzi morti, senza scopo o razza, vagabondi perpetui, migranti allo sprofondo della loro esistenza.
Tra finto cattolicesimo e rubli
Era il finto patriota, sovranista dei miei stivali, presunto condottiero della perduta grandezza italiana che lasciava che i suoi fidi rubassero rubli e petrodollari a Mosca e che preferiva Putin al suo popolo, la prosperità del suo partito al rispetto della legge, i brindisi segreti con la vodka ai giuramenti al Quirinale.
Era un cattolico imbarazzante, devoto come Tartufo, che ostentava i suoi messali come i suoi finti galloni di falso poliziotto, fautore dell’esatto contrario della politica difesa dal Vaticano sui migranti.
In breve, ha passato quattordici mesi tra una perpetua campagna elettorale, un post su Twitter, una marcia su Roma 2.0, che avrebbe potuto aggiungere un capitolo alla Tecnica del colpo di Stato di Malaparte.
Tutto qui.
È l’eterna arroganza che prende gli uomini da Achille e Icaro in poi?
L’intrinseca assurdità di questo fascismo balneare, che si risolve in un tour delle spiagge, tra mojito e Benito, gin-tonic e dj?
E come ha potuto, questo gradasso, dimenticare che Matteo Renzi era stato sindaco di Firenze, la città di Machiavelli, e che, per un semplice istinto repubblicano, avrebbe preso in trappola il «marciatore su Roma» che aveva ancora i piedi affondati nella sabbia delle spiagge dell’Adriatico?
Il colpaccio mancato
Ed ecco che ha provocato un’assurda crisi politica, da cui esce coperto di ridicolo e umiliato.
Lui che amava mascherarsi e moltiplicare i travestimenti – un giorno pompiere; un altro poliziotto; il giorno successivo, doganiere – ecco, è diventato come il re nudo della favola di Andersen.
Voleva essere Cesare; è finito come Petoche.
«Alea jacta est», aveva detto il primo, attraversando il Rubicone; la Storia non tramanderà le parole del secondo, che ha sabotato il proprio governo mentre se ne andava verso il suo ombrellone. «È un 18 brumaio un 1 aprile?» verrebbe da chiedergli, riecheggiando le parole di un gollista beffardo nel vedere, nel 1974, un bonapartista francese provare anche lui a piazzare il colpaccio, fallendo: tranne che i francesi, all’epoca, avevano tutto un altro tono e la Storia, stavolta, si è trasformata in farsa.
Lui che, in altre parole, voleva replicare il Consolato ed è riuscito solo a mettere a segno la più spettacolare ma anche la più ridicola tra le azioni politiche contemporanee: ah! che pena fa adesso, con quel suo modo di dare la colpa all’Europa, a Macron, ai rom e ai mercati finanziari per l’esplosione del palloncino che aveva trascorso l’estate a gonfiare oltre ogni limite…
Il gioco è finito?
E il Donald Trump transalpino ha perso la sua occasione? Questo purtroppo non è affatto detto.
Perché, certo, Matteo Salvini è più Scaramouche o Mascarille che Machiavelli.
E ovviamente vederlo alle corde non può che rallegrare chi assisteva con disgusto alla trasformazione del Paese di Pasolini e De Gasperi nella nazione tradita dove la linea diplomatica era decisa a Mosca e la politica migratoria dipendeva dal cervello di Steve Bannon.
E il governo barocco che gli succede, questa squadra contro natura che poggia su un «compromesso storico» tra i socialdemocratici e la strana cricca sovranista dei 5 stelle, è – qualunque cosa se ne dica – preferibile a una democratura guidata da uno sgherro.
Tuttavia, lo sgherro non ha ancora detto l’ultima parola.
Quanto ci si può fidare di fare questo bizzarro compromesso, che non ha altro scopo che toglierlo di mezzo; esempio dell’«inciucio» di cui, come tutti i populisti, finge di essere nemico.
E poiché la sua macchina di propaganda digitale, da lui stesso definita «la Bestia», si è immediatamente e di buona lena rimessa all’opera, si può ben immaginare l’asse della politica italiana, o quello che ne resta, tornare a pendere verso di lui, come una sgangherata torre di Pisa.
Per evitarlo, sarà necessario un vero risorgimento repubblicano.
Servirà ai democratici la miscela di saggezza e coraggio che i loro lontani antenati chiamavano virtù.
E non c’è che un modo per salvare davvero l’Italia: combattere, senza tregua e a tutto campo, una guerra gramsciana contro questo fascismo che, anche se è al tappeto, da un giorno all’altro potrebbe risorgere.
Salvini ha perso il suo 18 brumaio – ma sta già preparando il suo 2 dicembre.