Al Complesso del Vittoriano di Roma
Le opere del padre dell’action painting e dei suoi amici: il gruppo che cambiò il corso della pittura
agosto 1956: Jackson Pollock, guidando in preda all’alcol, si schianta contro un albero. Finisce così, a Long Island, la breve vita (era nato nel ’12, nel Wyoming; aveva appena 44 anni) del pittore che più d’ogni altro aveva giustificato il battesimo di action painting attribuito da Harold Rosenberg alla nuova pittura americana, quell’espressionismo astratto dal cui alveo era nata la cosiddetta scuola di New York (assieme a Pollock, tra gli altri, Willem de Kooning e Franz Kline): quel modo, cioè, di dipingere cieco e urgente, veemente e affidato ad un gesto non preventivato, che ora viene raccontato dalla mostra Pollock e la Scuola di New York al complesso del Vittoriano di Roma (realizzata in collaborazione con il Whitney Museum e curata da David Breslin e Carrie Springer con Luca Beatrice, dal 10 ottobre al 24 febbraio 2019). Quella pittura si diffuse presto ovunque nel vecchio continente. E anche in Italia, dove l’ action painting fu reinterpretata soprattutto da Toti Scialoja, che subito annotò sul suo Giornale della pittura: «Serata soffocante in un caffè sul marciapiede di viale Parioli.
…Colla dice ad un tratto, carezzando la sua cagna cieca: “Povero Pollock”. “Perché povero”, domando. “Non lo sapevi, è morto”. Tutti preghiamo ardentemente che si tratti di una falsa notizia, di un momento di mistificazione o di stravaganza fantastica di Colla. Ma, mentre lo interroghiamo, sentiamo salire dentro di noi, irrimediabile, l’oscura densità di questa morte».
Ne era discesa, in Scialoja, una ferma “volontà di tirare subito delle conclusioni”. Ma non solo in lui: quel modo di dipingere avrebbe di lì a poco invaso l’Europa, spostando il centro dell’arte mondiale da Parigi a New York. Prima di divenire “il pittore più potente oggi in America, l’unico che promette di divenire un grande”, come scrive nel 1947 Clement Greenberg, Pollock fa un po’ di tutto: gira l’America, fa il boscaiolo, scopre le tracce delle antiche culture pellerossa, si interna volontariamente in ospedale e si impegna in faticose terapie per tentare di disintossicarsi dall’alcol, pratica la scultura, segue gli insegnamenti – improntati al realismo – di Thomas Hart Benton, si impegna politicamente, insegue i dipinti murali di Siqueiros e di Orozco, partecipa al progetto governativo di sostegno agli artisti – il Federal Art Project – da cui è presto espulso per troppe assenze.
Poi, nel ’42, Peggy Guggenheim rientra a New York dall’Europa, e apre in città la sua galleria, Art of this Century. Peggy visita lo studio di Pollock, e non ne rimane all’inizio particolarmente colpita; ma poi, seguendo l’indicazione di Duchamp, e un giudizio lusinghiero di Mondrian sul giovane, si convince a offrirgli la possibilità di esporre. Così Pollock – a trent’anni, quando sta per aprirsi la sua stagione matura – tiene la sua prima mostra personale presso la galleria della Guggenheim, e soprattutto s’è conquistato l’appoggio della più influente donna di New York.
All’inizio del loro durevole e fecondo rapporto, Pollock è ancora attratto dall’icona di una misteriosa figura, a mezzo fra selvaticamente carnale e totemica, che s’accampa al cuore e domina i suoi dipinti; poi, presto, frantuma l’integrità e la plausibilità di quella “figura” in un ritmo sincopato e convulso.
Infine, lo ritroviamo disperso e disseminato ovunque, e ad esempio in Number 27 ( 1950) – qui esposto -, celebre esempio del suo dripping maturo, del modo cioè di far colare con apparente casualità il colore (per lo più uno smalto), liquido e brillante, sulla tela che egli voleva scesa dal cavalletto, spesso di grandi dimensioni, e sempre stesa a terra, per poterla percorrere “da dentro”, assalendola con un’affannosa gestualità, condotta dal pennello usato “come un bastone”, dalla spatola, o dal colore direttamente spremuto dal tubetto. Un modo che durò almeno sino al termine degli anni Quaranta; fino a quando, prossimo alla fine e ormai solo raramente operoso, egli non mise le premesse per quel misterioso ritorno ad un’immagine turbata che occuperà i suoi ultimi anni.
Il legame fra Pollock e la Guggenheim, fondamentale per la immensa fortuna del pittore, sembrò per un attimo allentarsi quando Peggy decise di tornare in Europa, e chiuse la galleria newyorchese, dove il giovane pittore, fra ’43 e ’47, aveva tenuto quattro personali. In realtà quel legame restò a lungo strettissimo, tanto che la prima personale europea fu proprio Peggy a volerla e a organizzarla, al museo Correr di Venezia. Ma già due anni prima, il 1948, nella prima e cruciale Biennale veneziana del dopoguerra, la Guggenheim – ormai radicata e autorevole in laguna – era riuscita a presentare la propria collezione, nella quale era tra l’altro La donna luna di Pollock, un quadro con il quale il pittore mostrò a tutti d’essere il capofila della sua generazione.
Prima di lui, avevano posto le basi della nuova pittura Arshile Gorky e Hans Hofmann, entrambi d’origine europea. Aprirono una strada che proseguirà altissima fino a Mark Rothko (anch’egli di nascita europea), con cui idealmente si chiude la mostra di oggi, dedicata agli “irascibili”, quel manipolo di artisti che si battezzò così, a New York, nel 1950, rubando questo termine soprattutto alla foga di Pollock.
…Colla dice ad un tratto, carezzando la sua cagna cieca: “Povero Pollock”. “Perché povero”, domando. “Non lo sapevi, è morto”. Tutti preghiamo ardentemente che si tratti di una falsa notizia, di un momento di mistificazione o di stravaganza fantastica di Colla. Ma, mentre lo interroghiamo, sentiamo salire dentro di noi, irrimediabile, l’oscura densità di questa morte».
Ne era discesa, in Scialoja, una ferma “volontà di tirare subito delle conclusioni”. Ma non solo in lui: quel modo di dipingere avrebbe di lì a poco invaso l’Europa, spostando il centro dell’arte mondiale da Parigi a New York. Prima di divenire “il pittore più potente oggi in America, l’unico che promette di divenire un grande”, come scrive nel 1947 Clement Greenberg, Pollock fa un po’ di tutto: gira l’America, fa il boscaiolo, scopre le tracce delle antiche culture pellerossa, si interna volontariamente in ospedale e si impegna in faticose terapie per tentare di disintossicarsi dall’alcol, pratica la scultura, segue gli insegnamenti – improntati al realismo – di Thomas Hart Benton, si impegna politicamente, insegue i dipinti murali di Siqueiros e di Orozco, partecipa al progetto governativo di sostegno agli artisti – il Federal Art Project – da cui è presto espulso per troppe assenze.
Poi, nel ’42, Peggy Guggenheim rientra a New York dall’Europa, e apre in città la sua galleria, Art of this Century. Peggy visita lo studio di Pollock, e non ne rimane all’inizio particolarmente colpita; ma poi, seguendo l’indicazione di Duchamp, e un giudizio lusinghiero di Mondrian sul giovane, si convince a offrirgli la possibilità di esporre. Così Pollock – a trent’anni, quando sta per aprirsi la sua stagione matura – tiene la sua prima mostra personale presso la galleria della Guggenheim, e soprattutto s’è conquistato l’appoggio della più influente donna di New York.
All’inizio del loro durevole e fecondo rapporto, Pollock è ancora attratto dall’icona di una misteriosa figura, a mezzo fra selvaticamente carnale e totemica, che s’accampa al cuore e domina i suoi dipinti; poi, presto, frantuma l’integrità e la plausibilità di quella “figura” in un ritmo sincopato e convulso.
Infine, lo ritroviamo disperso e disseminato ovunque, e ad esempio in Number 27 ( 1950) – qui esposto -, celebre esempio del suo dripping maturo, del modo cioè di far colare con apparente casualità il colore (per lo più uno smalto), liquido e brillante, sulla tela che egli voleva scesa dal cavalletto, spesso di grandi dimensioni, e sempre stesa a terra, per poterla percorrere “da dentro”, assalendola con un’affannosa gestualità, condotta dal pennello usato “come un bastone”, dalla spatola, o dal colore direttamente spremuto dal tubetto. Un modo che durò almeno sino al termine degli anni Quaranta; fino a quando, prossimo alla fine e ormai solo raramente operoso, egli non mise le premesse per quel misterioso ritorno ad un’immagine turbata che occuperà i suoi ultimi anni.
Il legame fra Pollock e la Guggenheim, fondamentale per la immensa fortuna del pittore, sembrò per un attimo allentarsi quando Peggy decise di tornare in Europa, e chiuse la galleria newyorchese, dove il giovane pittore, fra ’43 e ’47, aveva tenuto quattro personali. In realtà quel legame restò a lungo strettissimo, tanto che la prima personale europea fu proprio Peggy a volerla e a organizzarla, al museo Correr di Venezia. Ma già due anni prima, il 1948, nella prima e cruciale Biennale veneziana del dopoguerra, la Guggenheim – ormai radicata e autorevole in laguna – era riuscita a presentare la propria collezione, nella quale era tra l’altro La donna luna di Pollock, un quadro con il quale il pittore mostrò a tutti d’essere il capofila della sua generazione.
Prima di lui, avevano posto le basi della nuova pittura Arshile Gorky e Hans Hofmann, entrambi d’origine europea. Aprirono una strada che proseguirà altissima fino a Mark Rothko (anch’egli di nascita europea), con cui idealmente si chiude la mostra di oggi, dedicata agli “irascibili”, quel manipolo di artisti che si battezzò così, a New York, nel 1950, rubando questo termine soprattutto alla foga di Pollock.