“Quasi nulla”, racconta il sociologo Franco Ferrarotti che ricorda a sessant’anni dalla morte l’imprenditore di Ivrea insofferente al capitale, umanista e riformista anomalo
di Roberto Mania
Adriano Olivetti morì sessant’anni fa. Era il 27 febbraio del 1960. Fu colpito da un infarto mentre viaggiava in treno. Accanto, nel vagone, c’era uno sconosciuto studente francese. Ma Olivetti morì solo, su quel treno. In seguito, nella tasca di una sua giacca venne trovato un biglietto: «Chiamare Ferrarotti », c’era scritto. Non si è mai saputo perché. Franco Ferrarotti, 93 anni, è stato il primo cattedratico di Sociologia in Italia. È stato uno dei più stretti collaboratori di Adriano Olivetti. Hanno condiviso azienda, politica, idee, progetti, pensieri, lavoro, utopie, eresie, emozioni, suggestioni, libri. Tranne la musica, «perché Adriano — dice Ferrarotti — non capiva nulla di musica. Sentiva cantare le pietre, sentiva respirare i territori ma non sapeva apprezzare le sinfonie». Non c’è stato più nessuno come Adriano Olivetti.
Professore, chi era Adriano Olivetti?
«Adriano Olivetti era una figura talmente complessa da non poter rispondere chiaramente alla sua domanda. Usciva dalle categorie consuete, concettuali o professionali, del nostro ragionamento. È stato un elemento eteroclito per questo Paese retorico ed enfatico, un caso di malformazione. Un socialista irregolare. Uno straniero. Un uomo di grande curiosità umana, con un forte desiderio del non ancora conosciuto, una qualità da ulisside.
Dunque Adriano Olivetti nasce in una famiglia capitalistica e non è un capitalista, non accetta il capitalismo. Trascende — e questo è tipico di Olivetti — la condizione in cui si trova a vivere.
Secondo: è un laureato del Politecnico di Torino, è un ingegnere chimico che non accetta l’ingegneria come spirito politecnico perché lui non pensa che tutto il conoscibile sia misurabile e ciò che non è misurabile non è conoscibile. No, Olivetti è un umanista. Terzo: è indubbiamente un riformista, politicamente, ideologicamente e socialmente, ma non si riconosce nei riformisti. Nenni, Lombardi, Ignazio Silone gli proposero di dirigere l’Avanti , lui preferì fondare il Movimento Comunità».
Olivetti autoisolato o isolato dagli altri?
«Olivetti fu un riformista, consapevole della natura incerta del riformismo italiano che ha sempre oscillato tra un estremo di massimalismo e un altro estremo corrispondente di minimalismo socialdemocratico. Il massimalismo era rivoluzionario a parole e rinunciatario nei fatti, e il minimalismo era un riformismo che privilegiava la politica dei piccoli passi dimenticando i grandi ideali.
Olivetti voleva un riformismo che certamente facesse la politica del giorno per giorno ma senza dimenticare i grandi ideali di giustizia ed uguaglianza sociale.
Fondamentalmente era la riscoperta della base effettiva di legittimità del potere nella comunità concreta, cioè la popolazione».
Si può distinguere tra l’Olivetti imprenditore e l’Olivetti politico?
«Olivetti è un capitalista di nascita che vuole trascendere il capitalismo, ma è un grande imprenditore. È un imprenditore che non si limita a massimizzare il proprio profitto, personale o familiare. In un certo senso Olivetti realizza in Italia quell’idea schumpeteriana di imprenditore come demiurgo che non aspetta il mercato ma lo crea. Per esempio: mi ripeteva più volte “non possiamo licenziare nessuno”. Ma se il mercato non tira? “Niente da fare, troviamo nuovi mercati, facciamo nuovi prodotti».
È “l’imprenditore sovversivo”, di cui lei ha scritto.
«Sì, rispetto alla categoria dominante ancora oggi per cui l’imprenditore è uno che intraprende la produzione di un prodotto da vendere sul mercato con lo scopo di lucrare la differenza fra costo di produzione e prezzo di vendita che si chiama profitto».
C’è il territorio al centro della concezione del capitalismo di Olivetti. Ma non è contraddittorio con la sua spinta a realizzare una multinazionale delle macchine per scrivere, che parte da Ivrea e vuole conquistare gli Stati Uniti con l’acquisto della malmessa Underwood?
«Questo è il tema fondamentale nella concezione di Olivetti, mentre le multinazionali di oggi sono basate sul principio della a-territorialità, sono capitali vaganti del tutto irresponsabili anche verso la comunità di origine. La “irregolarità” dell’esperienza olivettiana è proprio questa: lui crea una multinazionale ma non di capitali apolidi e vaganti bensì che parte dalla comunità concreta. Lui diceva: “È nella comunità che la gente nasce, vive, lavora, si sposa, muore”. Noi volevamo andare al di là della concezione privata del profitto e quindi necessariamente della concezione privata dell’azienda».
Come?
«Si trattava di delineare la quadruplice radice della legittimità dell’azienda moderna che nasce nella comunità concreta e poi diventa multinazionale, senza dimenticare gli obblighi morali verso il territorio».
E qual è questa “quadruplice legittimità”? Di fatto pensavate ad un’azienda pubblica?
«No, sarebbe stato un carrozzone burocratico. Bisognava elaborare una concezione che andasse al di là del concetto privatistico di azienda, basato sulla proprietà privata, e nello stesso tempo non cadesse nel carrozzone burocratico statalista.
Quindi né proprietà pubblica in senso di statale, né proprietà privata. Ma una proprietà che contemplasse quattro radici collegate.
Primo: la componente tecnologica, un quarto della proprietà va al Politecnico di Torino; secondo: la componente propriamente territoriale, un quarto va al Comune di residenza; terzo: un quarto va a tutti i partecipanti del ciclo produttivo e distributivo, dall’amministratore delegato agli addetti alle pulizie; infine l’ultimo quarto va riconosciuto come una specie di premio speciale per i vecchi azionisti privati “per evitare inutili spargimenti di sangue”, come mi disse e scrisse. Avevamo così quella che chiamavamo l’industria sociale autonoma».
L’utopia olivettiana?
«Sì, questa era l’utopia. Ma Olivetti era un utopista di incredibile realismo,
un utopista che compra la Underwood!».
Lei ha scritto anche “la concreta utopia”.
«Perché le utopie di regola sono fughe dalla realtà. Nel caso di Olivetti l’utopia è costruita su una base di realismo incredibile».
E perché non resta nulla di questo, se non l’utopia?
«Lei ha ragione non resta questa idea — un po’ pazza, l’ammetto — della quadruplice radice della legittimità dell’azienda. Però Olivetti è all’origine del nostro industrial design: unire l’efficienza tecnica e meccanica e la bellezza».
Cosa c’è nel capitalismo italiano di Olivetti?
«Nel capitalismo italiano Olivetti non ha fatto scuola».
Non c’è più traccia di Olivetti nel sistema delle nostre imprese?
«Direi proprio di no. Però a parte l’industrial design, anche certe cose architettoniche con Giovanni Astengo a Torino e la torre Velasca a Milano. E poi c’è l’ecologia. L’ecologia di oggi non lo riconoscerà mai, ma ha un antesignano, un pioniere in Adriano Olivetti. Cosa vuole dire “a misura d’uomo”? Vuol dire che bisogna riconciliare il territorio con le persone che ci vivono».
E la critica di Olivetti alla democrazia parlamentare, l’idea scandalosa della “democrazia senza partiti”, non assomiglia a quella che oggi fanno esponenti del Movimento Cinque Stelle come Davide Casaleggio?
«No, no, no. Questi sono i populisti contro la Casta politica».
Si può considerare Steve Jobs l’Olivetti americano?
«Steve Jobs era un idea man, un self mademan, ma finiva lì. Olivetti andava al di là del sistema».