di Paolo Garimberti
Nel luglio del 1975 doveva tenersi a Praga il congresso del Partito comunista cecoslovacco. Era il secondo dopo la fine della Primavera di Dubcek, schiacciata dai carri armati del Patto di Varsavia nell’agosto 1968, e c’era molta attesa per capire, attraverso i nomi dei promossi nei ranghi alti del partito e la cancellazione degli epurati, fin dove si era spinta la normalizzazione di Gustav Husak, il proconsole di Breznev in procinto di aggiungere la presidenza della Repubblica alla carica di segretario generale del partito.
Avevamo avuto il visto dall’ambasciata cecoslovacca a Mosca, Demetrio Volcic – morto ieri a Gorizia a 90 anni – e io, e non era del tutto scontato in quei tempi. Arrivammo all’albergo a Praga nel tardo pomeriggio e la manager del ricevimento, una donna bella ed elegante nell’impeccabile divisa grigia, accolse Volcic con un saluto quasi festoso, oltre che molto cerimonioso. Quando uscimmo a cena, lontani dai microfoni-spia delle camere e della hall, Demetrio, nuovamente omaggiato dalla manager, disse: «Quando l’ho conosciuta era tenente. Credo che nel frattempo sia diventata maggiore ». E sfoderò uno di quei sorrisi che non facevano capire se scherzasse, dicesse la verità o alludesse a qualcosa d’altro. Amava le battute, a volte con un umorismo nero degno di Jaroslav Hasek, padre del “buon soldato Sc’vèik”. Ma con le battute spesso dava delle notizie.
Pochi conoscevano come lui le persone, le situazioni, gli intrecci e gli intrighi di palazzo dei paesi racchiusi dalla Cortina di ferro, il muro divisorio tra l’Occidente democratico e l’Oriente comunista dell’Europa, che, come disse Churchill nel celebre discorso a Fulton (Missouri), era sceso “da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico”.
Volcic aveva trascorso la giovinezza a cavallo di quella cortina di ferro. Era nato a Lubiana, nel 1931, ma aveva poi studiato a Trieste. La matrice mitteleuropea gli veniva soprattutto dalla madre, triestina, che come lui stesso ricordò in un’intervista ad Antonio Gnoli per Repubblica, «usava la cipria di una ditta viennese. Tutto in lei ricordava l’Austria». E, aggiungeva, «quando capitavo a Vienna, entrando in qualche negozio, avvertivo come una sorta di malinconia controllata, frutto della certezza che se un certo mondo non c’era più, restavano le buone maniere, il gusto del decoro, una certa cortesia ». Dalla frequentazione dei caffè viennesi gli era rimasta l’abilità nel gioco degli scacchi e la voracità per le letture, possibilmente in originale avendo assoluta dimistichezza con almeno sei lingue.
Come accadeva a Enzo Bettiza o a Frane Barbieri, l’imprinting mitteleuropeo con il retroterra balcanico gli consentiva di saper interpretare meglio di chiunque altro quando accadeva nell’universo comunista. Era diventato famoso proprio per le sue corrispondenze da Praga occupata nel 1968 (aveva raccolto in un libro, L’autunno di Praga, la trascrizione dei suoi servizi per la Rai), aveva lavorato a Vienna, a Bonn, a Varsavia e poi due volte a Mosca. Per lui la cremlinologia era una scienza infusa, che non gli era costata alcun apprendimento. Aveva conosciuto bene la periferia dell’impero, compreso quella riottosa della Jugoslavia di Tito, e quando arrivò al centro, nell’ufficio di Mosca sul Prospekt Mira, nel 1974, aveva tutte le chiavi giuste per penetrarvi.
Sulla Russia non si faceva illusioni. Non credeva che potesse diventare una democrazia, neppure quando arrivò Gorbaciov e poi Eltsin. La Russia, diceva, «ha un rapporto speciale con il potere, visto come una sorta di padre collettivo, amato anche quando si mostrava duro e crudele» e citava il filosofo dissidente Zinoviev, il quale gli aveva raccontato che la madre, quando morì Stalin, aveva acceso una candela sotto la foto del dittatore perché, nonostante tutto, aveva consentito ai suoi figli di studiare.
Era stato anche direttore del Tg1, quasi suo malgrado, nella Rai dei professori, spazzato via dall’avvento del primo governo Berlusconi. E, dopo aver lasciato il giornalismo attivo, era stato senatore eletto nel Partito democratico della sinistra, e poi eurodeputato nel gruppo del Pse. Ma la sua vera vocazione era girare il mondo, soprattutto quello dell’Europa dell’Est, come aveva fatto per quarant’anni. E a Gnoli, che era andato a intervistarlo nella sua casa di Gorizia nel 2015, aveva detto, con quella sua autoironia un po’ malinconica: «Sono stato un adolescente pieno di illusioni. E poi queste sono volate via. Ho condiviso giudizi e pregiudizi. Oggi vivo una piacevole e mediocre comodità. Mi sto rieducando leggendo in molte lingue. Tra qualche anno sarò di nuovo un ragazzo colto».
Della Russia diceva “Ha un rapporto speciale con il potere, un padre collettivo amato anche quando si mostra duro e crudele”
Parlava sei lingue Demetrio Volcic era nato a Lubiana nel 1931.