di Pierluigi Piccini
A Marco glielo devo per molti motivi e perché abbiamo vissuto insieme l’esperienza della pittura del Drappellone dell’agosto 1997 quello del cappotto della Giraffa. Qualche giorno fa attraversavo piazza del Campo quando un Pierluigi mi ha bloccato, era Marco Borgianni che mi invitava ad andare a vedere la sua mostra nei magazzini del sale. Si, ti vengo a trovare, ma lontano dalle cerimonie di inaugurazione a cui per poco tempo sono, comunque, andato. Nei magazzini del sale siamo scesi insieme e insieme abbiamo visitato la mostra. Come spazio espositivo i sotterranei del Palazzo del Comune sono difficili, ma Borgianni ha superato brillantemente la prova. “Ci ho lavorato tanto a queste opere” mi ha detto, “ero ossessionato dall’idea di trasportare la scultura nei dipinti”, Pierluigi ci sono riuscito secondo te? Si Marco, ma dimmi che tecnica hai adoperato? “Ho lavorato sui dei fogli di rame sottilissimi che poi ho ossidato”, ma sono incisi gli obietto “si e tu sapessi per portare il disegno sul rame quanto ho sofferto”. Ecco qua l’ossessione degli artisti: la profondità, la forma, la luce, il movimento già il movimento. Situazioni realizzative che la scultura assicura con maggiore facilità, ma molto più difficili da ottenere con la pittura. In più, Marco usa l’antico, il classico, in questo caso Jacopo della Quercia, lo scultore che per Fonte Gaia si fa un quasi architetto. Borgianni lo adopera per portare la forma, la profondità, il movimento nei suoi quadri. L’operazione è decisamente riuscita restituendoci dei valori iconici senza tempo. L’antico è un: “Patrimonio da rimodulare con disinvoltura. Spazio che può alimentare ansie e inquietudini. Territorio da sottoporre a infinite e continue riscritture, in un gioco di celebrazioni e profanazioni. Costellazione che, per dirla con Italo Calvino, tende a relegare l’attualità al rango di un rumore di fondo di cui si può fare a meno”. Così scrive Vincenzo Trione a proposito dei post-classici, cioè di quegli artisti che riprendono l’antico nell’arte contemporanea. Questo scritto sembra applicarsi perfettamente alla poetica di Marco Borgianni e questo è quello che mi ha trasmesso e che trasmetterà, con molta probabilità, ai visitatori della mostra. Tornandomene a casa ci riflettevo su e mi dicevo: guarda come tutto torna anche con i tuoi interessi di estetica e di teologia. La forma e la luce, l’assillo degli artisti, non sono, anche, le categorie della bellezza trascendentale che costituisce la dimensione autentica dell’essere? E l’essere non è la soglia che porta all’Assoluto creatore (Tommaso)? E l’opera d’arte non è creazione, la “costituzione di oggetto” come avrebbe detto Cesare Brandi? Costituzione di un oggetto speciale che avviene attraverso la manipolazione della materia, fatta da mani capaci, artigianalmente esperte come quelle di Marco. Così come altri hanno fatto prima di lui, alcuni dei quali, il nostro li utilizza per continuare a farci dei doni. Consentendo, in questo modo, all’essere la possibilità del dono: il donarsi. Ieri ho visto, all’inaugurazione, una persona felice e un po’ spaesata, la sua opera non ha bisogno di molte parole, ma di essere vista e ciò che ne determinerà il successo sarà un semplice colpo d’occhio, un “mi piace”, cosa che, sono sicuro, accompagnerà lo sforzo creativo di Marco.