A caccia di una nuova identità, tra collezioni da difendere e realtà virtuale, le istituzioni di ieri inseguono modelli alternativi
di Francesco Bonami
Imusei italiani stanno attraversando, come tutto il Paese, un momento di grande incertezza. L’ex ministro Bonisoli ha accusato la riforma di Franceschini, ora di nuovo ministro, di aver creato anarchia. Bonisoli confonde anarchia con motivazione. La motivazione è quella che fa funzionare l’organizzazione. Per fare un semplice esempio: in un bar italiano l’organizzazione unita alla motivazione consente ai baristi la possibilità di servire 50 caffè in cinque minuti. Anarchia è motivazione senza organizzazione, mentre l’organizzazione svuotata dalla motivazione produce stagnazione e burocrazia. Demotivare i musei con la scusa di controllare derive anarchiche non può fare altro che arrestare la necessaria – seppur imperfetta – trasformazione del museo come caposaldo fondamentale della cultura contemporanea.
Il ruolo del museo sta cambiando in tutto il mondo. Da depositario di sapere si sta trasformando in luogo di esperienza e spesso di divertimento e intrattenimento. Alle moltitudini in movimento per piacere – e non per disperazione – andare a guardare un quadro o una scultura non basta più. A confermarlo è un dato arrivato da Tokyo dove il TeamLab Museum ha registrato più spettatori, 2,3 milioni, del Van Gogh Museum di Amsterdam, 2,1 milioni. Il paragone è fra musei dedicati a un singolo artista. Ma anche in termini generali ha fatto più spettatori della mostra Heavenly Bodies: Fashion and the Catholic Imagination , al Metropolitan di New York, uno dei musei più visitati del mondo.
Il TeamLab è un collettivo di artisti, architetti, scienziati, ingegneri che l’aristocrazia del mondo dell’arte guarda con sospetto e dall’alto in basso. La loro è arte che oggi si definisce esperienziale, fatta di luci, suoni, effetti speciali e interattività. Lo spettatore diventa un partecipante nello spazio. Lo spazio è la natura dell’opera, la tela o il marmo di una volta. Chi paga i 30 dollari di biglietto si immerge in qualcosa che sta fra il Cirque du Soleil, il luna park e la realtà virtuale. Possiamo benissimo rifiutarci di considerare tutto questo arte. Secondo me, infatti, non lo è, o almeno non lo è ancora del tutto. D’altronde, molto di quello che oggi consideriamo arte proveniente da civiltà lontane e diverse da quella occidentale spesso nasceva come strumento rituale, mistico e religioso. Il TeamLab di Tokyo è forse la manifestazione di nuovi rituali necessari alla società dei nostri tempi e all’individuo contemporaneo. Il museo deve fare i conti con questo. Deve esplorare, studiare e trasformare il proprio ruolo senza snaturare la sua funzione originale: quella di essere un organismo capace di preservare, tutelare e “mostrare” nel migliore dei modi, salvaguardando la dignità e l’integrità delle opere d’arte di ogni periodo e cultura.
Il Metropolitan Museum sta già correndo ai ripari. Il nuovo e giovane direttore Max Hollein ha iniziato a lavorare con esperti e tecnici dell’intelligenza artificiale per immaginare un museo capace di prevedere i gusti dei visitatori, di studiare i loro sguardi per poi costruire percorsi culturali fatti su misura per ognuno di loro. In un futuro non lontano, quando pinco pallino comprerà il biglietto gli verrà data anche una mappa delle sale con le sue opere preferite. Per alcuni di noi questo rappresenta la condanna a morte della curiosità, del piacere, della scoperta e della meraviglia. Sentimenti essenziali per incontrare un’opera d’arte. Per altri, invece, intimiditi dall’arte e dalla cultura, le nuove tecnologie saranno un modo per superare la propria insicurezza. La cultura di massa diventa cultura ad personam o magari la semplice illusione di credersi unici.
Il visitatore si trasforma in un cliente. Un tempo i grandi magazzini di successo dicevano: «un cliente informato è un cliente migliore ». Oggi potremmo dire: «un cliente che ci regala informazioni sarà un cliente più soddisfatto». Anche se forse più passivo. Un giorno l’appassionato d’arte cambogiana non dovrà più perdere tempo nelle gallerie dell’antica Grecia. La cultura enciclopedica verrà rimpiazzata da una cultura su misura. Possiamo girarci dall’altra parte, non ascoltando o prendendo atto di quello che un fenomeno come il TeamLab Museum o le ricerche del Metropolitan provano a dirci. Basta farlo con la coscienza che questo atteggiamento porterà a un evitabile declino e allo svuotamento dei musei così come un tempo si sono svuotate le chiese.
Perdendo l’urgenza di dialogare con il presente e il futuro, ogni cultura o religione è destinata a diventare marginale. Ignorare non l’ignoranza ma le metamorfosi dell’ignoranza non può altro che condannare noi stessi a diventare ignoranti. Ovvero a non riuscire più a conoscere e a capire il mondo che ci sta attorno. La paura che Bonisoli mostrava per l’“anarchia” culturale è forse proprio la dimostrazione di questa nuova ignoranza, ma anche il segno che una grande rivoluzione nel mondo della cultura è iniziata ed è tutta ancora da organizzare, capire e motivare.
Il futuro ci appartiene perché ce ne siamo fatti carico. Lo diceva Ellen Johnson Sirleaf, la prima donna ad essere eletta presidente di una nazione africana, la Liberia. I musei non sono nazioni, ma immaginare di farsi carico del loro futuro è una sfida che dovrebbe affascinare e non spaventare.