Ci sono gli ingredienti manca la cucina

di Pierluigi Piccini

La Covid-19 toglie al Comune di Siena il 20% delle entrate, non fa riaprire l’80% degli alberghi e, in sostanza, mette in grave difficoltà imprenditori e amministratori pubblici. In queste particolari classifiche sugli effetti della pandemia la città che si trova a rimpiangere il Palio è tra quelle messe peggio, anche tra le altre realtà turistiche. Forse, peggio ancora, sta solo Firenze. Si dirà: mal comune. No! Questo è mal voluto. Dopo anni di miopi politiche che hanno alimentato l’escursionismo giornaliero o, almeno, assecondato il famoso “mordi e fuggi” (“Cosa vedere in tre ore”: ci si adeguava così negli strumenti di informazione), ora non si può dare la colpa a un destino cinico e baro. Se abbandoni il Santa Maria della Scala a se stesso invece di farne una fabbrica della cultura, se fai chiudere l’Enoteca e rilanci con una bevuta di tre giorni chiamando qualcuno da Merano, se non costruisci progetti e didattica insieme alle Università, se esci dal sistema museale della provincia e non dialoghi con i Comuni contermini, se fai mostre molte delle quali riciclate (in duemila temerari hanno visto quella su Tex), se un grande progetto culturale ed espositivo su Taddeo di Bartolo lo fanno a Perugia e non a Siena, se ti preoccupi solo di assecondare i “signori della rendita”, se promuovi solo trenini, mercatini ruote girevoli, raduni di automobili e altre amenità… Se si sommano queste e tante altre scelte (o meglio, non scelte), ecco che i nodi vengono al pettine. La pandemia mette in evidenza un’economia drogata, basata sulla somministrazione veloce e sulle rendite di posizione di chi non lavora ma gestisce fondi, finché servono per pizzerie a taglie e negozietti per turisti. L’alternativa non c’è: infatti, molti restano chiusi. Gli albergatori, gli artigiani, i negozi del lusso o di prodotti di qualità erano tagliati fuori da tempo da un riferimento solido, a causa di un costante calo della permanenza media (ormai una notte o poco più) e della spesa media (sotto i 90 euro, quando in altre località si arriva a 200). In questa lunga teoria delle occasioni perdute c’è anche quella di non progettare una “grande Siena”, ovvero un territorio comunale più ampio, dialogante con un territorio che produce, anche per diversificare l’economia, improntare un nuovo modello di sviluppo, magari creare un distretto culturale evoluto, unendo enti pubblici e imprese private. Ma no, si preferisce da un lato la politica dell’isolamento, dall’altra quella degli annunci: sfilate di moda, finanziatori olandesi, tramvie sotterranee, metropolitane di superficie, mega accordi con il resto del mondo, dalla Cina a Panama, da Firenze a Perugia. In due anni abbiamo sentito di tutto, ma solo un Palio straordinario si è avverato. Chi detiene il potere a Siena sembra disinteressarsi dei problemi reali e lascia al popolo l’illusione di una grandeur effimera, con annunci mirabolanti (il povero artista Christo è morto, ma chissà se mai avrebbe incartato il palazzo pubblico). Non bastano gli annunci e i lustrini di una ruota girevole per evitare che i giovani lascino la città, che molte famiglie non arrivino a fine mese, che tante attività non riaprono. Servono modelli di sviluppo concreti, progetti, visione. La cultura, l’enogastronomia, le tradizioni, la storia, la bellezza, l’artigianato, la ricerca, l’industria: Siena, si sa, avrebbe tutto, anche per non rimpiangere il passato. Ma, come avviene davanti ai fornelli, inutile avere tutti gli ingredienti se poi difetta la cucina.