Homo Europæus dalla cima dei capelli alla punta delle scarpe, anche fisicamente Victor Ieronim Stoichita pare provenire da un altro tempo. Impeccabilmente parlante tutte le lingue del Continente (il suo italiano è stupefacente), è oggi fra i maestri assoluti di una disciplina, la storia dell’arte, che abbraccia uno spazio al di là di tutte le lingue e tutte le frontiere. L’Europa in cui è nato (nel 1949 a Bucarest), quella in cui ha scritto (principalmente in francese) e ha insegnato (dal ’91 a Friburgo, in Svizzera) sono state a lungo il luogo dell’apertura e del dialogo. Nella conferenza colla quale ha inaugurato due anni fa il Collège de France (Les Fileuses de Velázquez. Textes, textures, images, Fayard, pp. 52, euro 12,00) ricorda come «Europa» venga da eurýs («largo, esteso in lontananza») e óps («sguardo, occhio»). L’Europa ha occhi vasti e profondi: proprio come quelli – abbaglianti di celeste – con cui Stoichita mi osserva divertito mentre squaderno i suoi libri (una piccola parte dei suoi libri) sul tavolo di un albergo romano dal nome inevitabile: Hotel Cosmopolita.
In occasione della recente mostra su Ovidio alle Scuderie del Quirinale, è stato festeggiato dall’Accademia di Romania: dove risiedeva quarant’anni fa, quando studiava con Cesare Brandi. Di quella residenza si favoleggia a lungo nel primo volume della sua autobiografia, uscito nel 2014 da Actes Sud, Oublier Bucarest. Il seguito Stoichita lo sta scrivendo nelle pause di una vita da clericus vacans, invidiabile quanto inattuale, in un continente che sta rialzando frontiere che ci eravamo illusi fossero alle nostre spalle, e che pochi decenni fa hanno sparso il sangue di milioni di europei. Ci troviamo a due passi da Piazza Venezia: qui fu dichiarata una guerra che il paese in cui ci troviamo lo uccise, quasi: «Mi sono sempre sentito un cittadino europeo, ma è vero pure che sono cresciuto in un paese chiuso come la Romania. Quella di allora era un’Europa di centri e periferie; per gli intellettuali rumeni di allora il centro restava Parigi; anche Roma e il suo mito avevano lo stesso significato. Ma l’Europa è riuscita a rifondarsi proprio al di là di questa scissione. Oggi malgrado tutto cerco ancora di pensare all’Europa come a un’unità culturale, che al mondo ha dato tanto. Forse l’Europa deve recuperare la sua funzione di centro ideale, non deve vergognarsi di averla svolta. Credo che il mondo abbia ancora bisogno dei nostri valori».
Lo studioso che ha più riflettuto sulla categoria dell’esilio, Edward Said, invitava a distinguere tra l’esiliato vero e proprio, l’espatriato e l’emigrato (anche se queste distinzioni non vanno troppo irrigidite, oggi che si insiste a distinguere fra il «rifugiato» e il «migrante economico», come se la fame non fosse un motivo serio per espatriare…). Said cita Auerbach, che a sua volta cita un passo del teologo del XII secolo, Ugo di San Vittore…
… «l’anima acerba concentra il suo amore su un posto nel mondo; l’uomo forte ha esteso il suo amore a ogni posto nel mondo; l’uomo perfetto l’ha saputo estinguere». Io l’ho trovato in Tzvetan Todorov e mi colpiva questa coincidenza, di un bulgaro che scrive a Parigi citando un palestinese che scrive a New York, che cita un tedesco che scrive in Turchia, che cita un mistico tedesco che scrive anche lui a Parigi; mi dicevo che anche un rumeno in Svizzera ci si poteva ritrovare.
Faccio fatica a immaginare espatriati – «extraterritoriali», per usare la nozione più neutra di George Steiner – più diversi di te e Said. Non c’è pagina di Oublier Bucarest in cui si avverta l’agonismo e il risentimento dell’esiliato; c’è invece un aplomb, una «leggerezza apparente» – per dirla col nostro Leopardi – che ne fa un testo abbastanza unico, nella «letteratura extraterritoriale».
Conosco bene la letteratura della memoria scritta dopo la caduta del Muro, quasi sempre testi di denuncia, un genere che non mi interessava (anche se parlo di mio nonno e mio zio incarcerati, del controllo soffocante dello Stato…). Mi premeva soprattutto rendere il grottesco di certe situazioni.
Conta anche quella che potremmo chiamare la «primavera di Bucarest», quando sei venuto a studiare in Occidente.
Sì, fra il ’65 e il ’72 circa. Ceausescu voleva creare l’immagine, strumentale, di una Romania enfant terrible del blocco dell’Est. Credevamo che davvero il Paese si stesse aprendo a una «terza via» ma nel ’72, al ritorno da un viaggio in Cina e in Corea del Nord, Ceausescu mise fine bruscamente a quella stagione; negli anni ottanta subentrò una paranoia del potere davvero tragica. Ceausescu non aveva niente di sinistra. Nazionalista, antisemita, dal punto di vista antropologico semplicemente un fascista.
Non so se è una bestialità ricondurlo alla destra rumena pre-1945…
… come no?… certi reduci della Guardia di Ferro entrarono nella Securitat!
Recentemente, all’Accademia di Romania, hai fatto una bellissima conferenza sulla «diaspora intellettuale rumena» del Novecento, su Paul Celan, Emil Cioran e Robert Klein (lo storico dell’arte che si suicidò – come Celan a Parigi nel ’70 – alla Villa «I Tatti» di Firenze nel ’67). Ma altri rumeni in esilio furono i grandi maestri dell’Assurdo, Tzara e Ionesco. Forse anche il processo a Ceausescu ripreso dalla televisione può essere letto in questa chiave…
…fu una vergogna. Sarebbe stata meglio una morte brutale, come quella di Mussolini. Fu atroce quella parodia di processo, davvero da teatro dell’assurdo, una nemesi resa possibile da come lo stesso Ceausescu aveva pervertito il sistema giuridico rumeno.
Passiamo ora a un contributo alla critica di te stesso. È un doppio romanzo di formazione il tuo: in gioventù i tuoi studi sono improntati a un forte appello alla tradizione, all’archeologia e alla filologia classica; anche il periodo a Roma – sebbene Brandi non fosse certo uno storicista tradizionale – ti conferisce un’impostazione molto strutturata. I tuoi primi libri, in rumeno, sono monografie su figure come Duccio di Buoninsegna, Simone Martini e Pontormo. Poi negli anni Ottanta c’è una «latenza», e il saggista che scrive dopo è un altro. Metti al centro la meta-rappresentazione, cui dedichi il libro che ti dà la fama, «L’invenzione del quadro».
Quando ho deciso di lasciare per sempre il mio Paese mi sono trasferito in Germania, a Monaco all’inizio degli anni ottanta, e lì mi sono confrontato con la nuova storia dell’arte. La figura-chiave è stata Hans Belting.
Però quella formazione robusta forse è rimasta, a rinsaldare le basi dei tuoi lavori. Rispetto alla semiotica della pittura di Louis Marin, Daniel Arasse o Hubert Damisch, lo spessore storico dei tuoi studi irrobustisce un’audacia di pensiero che altrove certe volte induce a spiccare il volo, forse, senza slancio sufficiente.
Sono un ibrido. Rumeno di formazione italiana e poi tedesca e anglosassone, con contatti col mondo dello strutturalismo francese. I compagni della scuola francese che hai citato, che io apprezzo molto, certo sono diversi. In realtà Belting discende da Warburg.
Leggendo uno dopo l’altro L’invenzione del quadro (il Saggiatore 1998) ed Effetto Sherlock (ivi 2017) si riconosce un tema comune, quello dell’ostacolo alla percezione. Lo sguardo intralciato, nel libro più recente, trova la sua risposta in quello dedicato allo sfondamento dello spazio nella meta-rappresentazione.
Il titolo che avevo pensato all’inizio per Oublier Bucarest era Le frontiere invisibili. Secondo uno storico tedesco degli anni trenta, Ernst Kornemann, le vere frontiere dell’Impero romano non erano naturali, territoriali, bensì mentali, culturali. Lo capisce bene chi come me viene da una provincia dell’Impero come la Dacia o la Tracia. Quando tornavo a Roma dalle estati passate a Costanza, cioè all’antica Tomi, Brandi esclamava sempre: «Ah, ecco il nostro Ovidio!». Ma quella che era per lui la terra dell’Esilio era per me, invece, quella dell’Origine. E ricordo quanto mi infastidisse da ragazzo leggere le descrizioni del Ponto ghiacciato, delle montagne, delle nevi… mi chiedevo se ci fosse stato davvero, Ovidio (un interrogativo che oggi qualcuno si pone sul serio). Poi ho capito che quella geografia immaginaria era un perfetto esempio di «frontiera invisibile».
Ha un significato che la tua avventura di cittadino europeo cominci con un saggio geniale, L’invenzione del quadro appunto, che ricostruisce la tradizione dell’apertura, dentro l’immagine, di una finestra aperta su un altro ambiente?
Non ci ho mai pensato, è possibile ci sia una qualche proiezione personale. È vero che soffro di una forma moderata di claustrofobia. Non potrei quasi vivere senza passare qualche settimana al mare: il mare aperto, l’orizzonte. Ho scritto del cielo: Cieli in cornice (Meltemi 2002) è un libro sulla visione nella pittura di El Greco, Zurbarán e Velázquez in relazione alla mistica spagnola.
In questi casi però il cielo è un’illusione ottica; c’è sempre un soffitto, a porre un limite allo sfondamento. Ricordo un pezzo di Giorgio Manganelli, Il soffitto come palcoscenico, sul quale Roberto Calasso ha impostato un intero libro (Il rosa Tiepolo, Adelphi 2006).
Certo, il soffitto rappresenta l’illusione di aprirsi verso il cielo, un cielo che scende sulla chiesa o una chiesa che si apre verso il cielo.
Un altro tuo tema prediletto è quello dell’illusione, appunto. Poni sempre in questione le categorie di realtà e di realismo. In Effetto Sherlock citi un testo giovanile di Émile Zola, Lo schermo: «ogni opera d’arte è come una finestra aperta sulla creazione; inserito nel vano della finestra, c’è come una sorta di Schermo trasparente, attraverso il quale si percepiscono gli oggetti più o meno deformati (…). Lo schermo realista è una semplice lastra di vetro, molto sottile, molto chiara (…). Lo schermo realista nega la sua stessa esistenza». Qui Zola, riprendendo un tòpos di Leon Battista Alberti, pare anticipare il concetto di realismo come lo porrà Roland Barthes: un’illusione, un dispositivo retorico che simula una realtà inaccessibile. Questo tema mi pare decisivo oggi che, dopo il postmodernismo, si fa un gran parlare di «ritorno alla realtà». Al di là dell’istanza etica, prima che politica, è sempre utile questa riserva gnoseologica.
Il realismo non è che un sistema di rappresentazione. Anche autori che sono stati letti in questa chiave, come Caravaggio, operano sempre degli sdoppiamenti. Nell’Immagine dell’Altro (appena uscito da La casa Usher e recensito su queste pagine il 10 novembre scorso, n.d.r.) parlo del Narciso e della Buona ventura: lo sdoppiamento della personalità e l’incontro effettivo con l’Altro sono due aspetti dello stesso problema di rappresentazione.
In quasi ogni tuo libro c’è un dettaglio che m’incuriosisce: a un certo punto viene citato un film di Hitchcock, alla stregua dei cammei che recitava lui stesso nei suoi film. Mi colpisce questa tua relazione col cinema: specie nei tuoi ultimi libri, la cultura storica e la sottigliezza interpretativa si coniugano con un’invidiabile godibilità di lettura. Forse il cinema ti ha aiutato.
Da ragazzo il cinema mi dava un piacere irresistibile; da studioso certo è subentrata un’attenzione diversa, ma quel «piacere del testo» è rimasto. Ogni cosa che scrivo è rivolta a un pubblico certo intelligente ma non necessariamente specialistico. È un’ambizione che deriva dalla mia passione per la letteratura. Il mio nonno materno era uno scrittore ma per scrivere letteratura devi possedere una lingua; io ne ho molte e quindi, forse, nessuna.
La questione della lingua, e del problema del nome proprio (cruciale, per esempio, in Celan-Antschel): all’inizio della sua autobiografia, Sempre nel posto sbagliato, Said ricorda come tutti pronunciassero il suo nome in modo appunto erroneo. Io stesso pronuncio il tuo cognome ogni volta in modo diverso (è stato utile il tuo suggerimento di pronunciarlo come in dialetto calabrese, con la «a» aspirata…). Questa tua vita fra le lingue quanto condiziona quella che un riflesso condizionato ideologico non ci consente più di chiamare a cuor leggero la tua «identità»?
Mia moglie Anna Maria Coderch è spagnola, abbiamo anche scritto insieme un libro su Goya (L’ultimo carnevale, il Saggiatore 2002). E i nostri figli, nati a Monaco negli anni ottanta, hanno almeno tre lingue madri. Quando chiedevano a nostra figlia Maria cosa fosse, a sei o sette anni rispondeva «ich bin bayerisch», «sono bavarese». Ora è psichiatra a Berlino, chissà cosa risponderebbe… Invece nostro figlio Pedro, autore di fumetti filosofici sposato con una toscana e padre di un figlio italo-spagnolo-rumeno, la prendeva anche lui alla lontana e poi concludeva: «non lo so, forse sono europeo». A me è successo questo: quando mi si è presentata la possibilità di trasferirmi negli Stati Uniti mi piacevano i campus, davvero cosmopoliti. Ma trecento metri più in là dovevi diventare americano. E non ce l’ho fatta. Allora mi sono detto che volevo restare… cosa? Quello che sono riuscito a rispondermi è che resto irriducibilmente europeo