Ricerche Uno studio di Paola Italia legge nella «Storia della colonna infame» l’origine prima del romanzo
di Paolo Di Stefano
Manzoni lasciò l’«Adelchi» per «Fermo e Lucia». Le ragioni si trovano (anche) nel diario di un inquisitore
Sulla prima pagina manoscritta del romanzo di Alessandro Manzoni campeggia una data: 24 aprile 1821, ritenuta come il punto d’inizio del Fermo e Lucia, cioè della prima redazione dei Promessi sposi. Si tratta di un’eccezione, perché Manzoni, diversamente da Leopardi, non aveva l’abitudine di segnalare ad diem le tappe di composizione delle sue opere. Va ricordato piuttosto che per Manzoni non mancano le «occasioni-spinta» ispirate a fatti precisi che finiscono in alcuni titoli «cronologici» di opere poetiche (Aprile 1814, Marzo 1821, 5 Maggio, Il Natale del 1833). Detto ciò, la domanda da sempre senza risposta è perché Manzoni, concentrato nella stesura dell’Adelchi, il 24 aprile 1821 abbia deciso di interrompere bruscamente il suo progetto teatrale per dedicarsi alla nuova impresa romanzesca, un genere negletto dalla letteratura «alta». Sono le considerazioni con cui Paola Italia, filologa della scuola di Dante Isella, il cui nome figura tra i curatori dell’edizione critica del romanzo, ci introduce in una sua appassionante ricerca consegnata al saggio Manzoni riformatore «24 aprile 1821», in uscita nel volume Il Settecento riformatore: un lessico per la contemporaneità, a cura di Stefano Scioli e Gino Ruozzi (Bononia University Press).
La premessa è l’ipotesi che l’opera di Manzoni trovi senso sempre più nel suo valore politico, in direzione di un riformismo liberale innestato su basi cattoliche. È questa una lettura che, come avverte Paola Italia, ha sostenitori autorevoli in Isella e in Ezio Raimondi e alla quale adesso si aggiunge un nuovo importante tassello. Dunque: «Quali erano le idee e gli eventi che, pur nell’isolamento della casa di via Morone, avevano spinto lo scrittore ad abbandonare il teatro (…)?». Si tratta, coniugandoli con gli impulsi interiori e le esigenze letterarie, di ripercorrere gli eventi storici dell’annus horribilis 1821 per il Lombardo-Veneto: anno che vide istruire i grandi processi inquisitori imposti dagli austriaci contro la carboneria dei patrioti italiani.
È vero che i primi segnali di attrazione verso il romanzo storico emergono già nelle lettere dei mesi precedenti, dove Manzoni si dilunga sull’equilibrio tra invenzione e documento storico. Intanto, allorché la storia preme con la sua incandescenza, Manzoni, che non è tipo da intervenire in prima persona nella vita attiva, non esita a scrivere. Sempre però con mille cautele. L’esempio più clamoroso è l’ode Aprile 1814, reazione (incompiuta) all’eccidio perpetrato, a due passi da casa Manzoni, il 21 aprile dalla folla inferocita contro Giuseppe Prina, il ministro delle finanze del Regno, accusato di aver aumentato la pressione fiscale. Episodio echeggiato poi, secondo l’avvincente ricostruzione di Salvatore Silvano Nigro, nel XII capitolo dei Promessi sposi, dove la «funesta docilità» non impedisce a Renzo l’assalto al forno, così come aveva impedito allo scrittore di intervenire a difesa del ministro. In compenso il giorno dopo ne venne fuori, di getto, un’ode civile. Manzoni non ha «l’irsuto petto» di Foscolo, né il suo impeto guerriero. E forse vale un po’ anche per lui quel che valeva per don Abbondio: il coraggio uno non se lo può dare… «Scrivere invece di agire. Ma non volere (o riuscire) a fare degli scritti un manifesto politico, e non avere il coraggio di difenderli fino alle ultime conseguenze. È ciò che farà anche all’inizio del 1821». Il 6 marzo scoppia la rivolta piemontese contro lo straniero, capeggiata da Santorre di Santarosa in accordo con Carlo Alberto, e Manzoni, con entusiasmo, si butta a scriverne un’ode, Marzo 1821, che poi per prudenza, a fallimento consumato, avrebbe distrutto per ricostruirla a memoria e pubblicarla in tempi più favorevoli, nel 1848.
E veniamo adesso al 24 aprile 1821, la data iscritta sulla prima pagina del Fermo e Lucia. Manzoni doveva essere ancora a Milano per trasferirsi, nel giro di una settimana circa, nella casa di campagna a Brusuglio: erano i giorni in cui a Milano si celebrava il processo istruito dagli austriaci per cospirazione contro lo studente di musica Piero Maroncelli e il letterato Silvio Pellico, arrestati all’inizio di ottobre. Tradotti nei Piombi di Venezia, i due verranno interrogati dal celebre magistrato trentino Antonio Salvotti, incaricato dalla polizia austriaca di annientare gli affiliati della carboneria e coloro i quali non li avevano denunciati: spinto dalla «voce del dovere», l’inquisitore porterà innanzi la sua implacabile e raffinata tecnica di interrogatori e di torture non si sa se solo psicologiche o anche fisiche.
Mastino feroce per alcuni, per altri figura non esente da slanci compassionevoli (protagonista del romanzo storico di Fausta Garavini In nome dell’Imperatore, Cierre 2008), con le buone e con le cattive, Salvotti ottiene presto i risultati richiesti, come racconterà in una Memoria apologetica scritta a 75 anni e pubblicata da Alessandro Luzio nel 1901. In quel diario giornaliero si registra la caduta del Maroncelli, «giovane vano e leggiero», oltre che «di spregevole carattere», il quale nell’occasione non si astenne dal coinvolgere Pellico «come partecipe alla cospirazione». E proprio sotto la data 24 aprile 1821 viene riportata, con malcelato orgoglio, la capitolazione più illustre: «Anche Pellico si scosse dopo una lotta di tre giorni e palesò la sua colpa». Il 28 maggio, Pellico accusa Romagnosi e Melchiorre Gioia, «tutti letterati e prelati che con Manzoni avevano e avrebbero avuto rapporti strettissimi», fa notare Italia. Ripreso e completato l’Adelchi, dalla primavera seguente Manzoni, tornato in via Morone, si dedicherà con frenesia al romanzo fino al 17 settembre 1823. «Come non pensare a una lotta contro il tempo, mentre il teatro del processo ai carbonari, che vede coinvolto direttamente il coetaneo Federico Confalonieri, arrestato la notte del 13 dicembre 1821, è di nuovo diventata Milano?».
Proprio a Milano, nel frattempo, lo stesso Salvotti dal maggio 1822 è stato nominato consigliere dell’Imperial Regio Tribunale. Al suo contributo si devono le condanne di Maroncelli (20 anni) e di Pellico (15) che verranno scontate nella prigione asburgica dello Spielberg. Quella di Confalonieri fu una pena di morte commutata in ergastolo e alla fine del 1835 in deportazione negli Stati Uniti (che il condannato riuscì a evitare). Ora, se non è il frutto di un banale caso, la presenza in esergo di quella data che coincide con la confessione di Pellico potrebbe rivelarsi come una «spia» intenzionale: appresa più o meno in diretta o successivamente quella notizia (ma le gazzette e le voci circolavano con rapidità anche a quel tempo), Manzoni avrebbe voluto lasciare un segno di riconoscimento a futura memoria.
In questa luce, sarebbe dunque legittimo rivedere anche la questione della Storia della colonna infame, considerata a lungo una semplice «appendice» dei Promessi sposi. Sotto la suggestione della tragica attualità proposta dall’istruttoria contro Maroncelli- Pellico-Confalonieri, Manzoni sarebbe corso a riconsiderare, per analogia, il processo secentesco agli untori che fin dalla sua prima pubblicazione del 1804 aveva letto come la vicenda storica ideale in cui situare un romanzo capace di divulgare in tutte le classi sociali il rifiuto della tortura come mezzo di giustizia. A prova di ciò, la studiosa cita una lettera che l’amico Ermes Visconti invia al filosofo francese Victor Cousin il 30 di quel fatale aprile 1821. In essa, dilungandosi sul romanzo appena iniziato dal Manzoni (sei giorni prima), non si parla né di intrecci amorosi né di matrimoni impossibili: «Alessandro dunque ha incominciato a dipingere il quadro della Milano del 1630: le passioni, l’anarchia, i tumulti, le follie e le assurdità di quei tempi». Visconti evoca esplicitamente «il celebre processo chiamato da noi della Colonna Infame, capolavoro di prepotenza, superstizione e idiozia…». Ecco, mancando la capacità di sobbarcarsi le responsabilità pubbliche delle sue opinioni private, quale fu il massimo atto politico di Manzoni.