di Pierluigi Piccini
C’è qualcosa di nuovo nella crisi che stiamo vivendo, anzi di antico: la solidarietà. Nel divieto di stringerci la mano, di stare distanti, nell’obbligo di prendere un caffè al bar dentro delle strisce che normalmente disegnano il pericolo c’è qualcosa di originario, il bisogno dell’altro. Si avverte la mancanza, l’assenza di ciò che abbiamo ritenuto il quotidiano a volte fastidioso, il normale ci viene tolto. E riscopriamo il corpo, non quello dell’immagine materiale della bellezza che il consumo commerciale ci vorrebbe imporre, ma il corpo nella sua precarietà sia esso di anziano o di bambino, della vita che può essere messa in pericolo. Quel pericolo che prima del Coronavirus prende il nome di emergenza ambientale o tecnologica, ad esempio. Dall’individualismo degli anni ottanta e novanta all’odio di questi anni, all’unità, al corpo sociale, alla difesa dell’altro perché difendere l’altro potrebbe significare difendere noi stessi. Categorie che stanno riconquistando lentamente lo spazio del senso comune. Ascoltare gli anziani confinati nelle case e rispondere facendo fronte ai loro bisogni, ai genitori dei bambini a cui è vietato l’asilo o la scuola materna, ai precari, agli anelli più deboli che la situazione di difficoltà rende ancora più fragili. Aiutare chi si vede sottratto il reddito da un accidente non previsto. Insomma, esserci nelle forme pubbliche o private. Riconquistare quel clima che alcune volte le società riescono a mettere in piedi subito dopo una catastrofe e che il nostro Paese ha vissuto alcuni decenni fa.