Come è possibile che con la disoccupazione giovanile dei laureati superiore al 10 per cento, lo Stato abbia centinaia di migliaia di cattedre vacanti? Per il nuovo accademico il Mef ha autorizzato 85 mila nuove cattedre, ma solo 25 mila sono state effettivamente assegnate. A queste cattedre vacanti si devono poi aggiungere circa 100 mila posizioni da ricoprire con personale a termine e 50 mila nuove assunzioni autorizzate per l’emergenza Covid. Si arriva non lontano dalle 200 mila posizioni da riempire, anche se in questi giorni al ministero dicono che il processo procede celermente e tutto è sotto controllo.
Le cattedre vuote rappresentano uno spettacolare fallimento di programmazione statale. Il sistema di reclutamento è oggettivamente complicato, ma il fallimento di questi giorni è dovuto ad almeno tre vizi italiani. Il primo vizio è la sindrome di Penelope. L’obiettivo di chi va al Governo pare spesso quello di annullare le riforme dei precedenti esecutivi. Il ministro Bussetti del Conte I ha cancellato grossa parte della riforma del reclutamento impostata dai colleghi Giannini e Fedeli dei governi Renzi e Gentiloni, senza aver tempo di impostarne una nuova. Il secondo vizio è la non applicazione delle leggi esistenti. Nel 2018 e 2019 non si sono fatti né concorsi ordinari per neo laureati, né concorsi straordinari per insegnanti non abilitati ma con molti anni di esperienza.
Questi ultimi concorsi sono controversi perché riservati, ma andavano fatti nella misura in cui la legge li prevedeva. Senza dimenticare poi che le graduatorie regionali – quegli elenchi di idonei a cui era stato promesso un posto nel 2015 – sono ormai in via di esaurimento. Il terzo vizio è il fascino indiscreto della “deroga”. Un terzo delle 150 mila cattedre di sostegno sono state create in “deroga” ed è pertanto vietato assumere a tempo indeterminato. L’unica soluzione per coprirle diventa quella dell’assunzione a termine. Oltre a questi vizi, il reclutamento è difficile per colpa della distanza territoriale e disciplinare tra le caratteristiche della domanda e dell’offerta di lavoro nella scuola. Per dare un’idea, mentre le scuole del Nord hanno bisogno di insegnanti di matematica, i candidati idonei sono principalmente specializzati in discipline umanistiche e residenti al Sud.
Per progettare il futuro ed evitare i fallimenti di oggi dobbiamo cambiare i canali di assunzione. Non essendo in grado di garantire lo svolgimento di concorsi annuali, occorre aprire le porte anche all’assunzione diretta da parte di ogni singola scuola. Questo non vuol dire dare potere al preside sceriffo, un’immagine grottesca che ha affondato la riforma di Renzi nel 2015. L’iter di assunzione potrebbe essere il seguente. Primo, la scuola – preso atto della mancanza di posti coperti a concorso nazionale e sentite le esigenze di trasferimento dei docenti – pubblicizza la posizione che vuole riempire. Secondo, una commissione nominata dal Consiglio di istituto esamina i curricula dei candidati, le lettere di referenza e i crediti ottenuti nelle esperienze precedenti. Terzo, i candidati più promettenti sono invitati per un colloquio e una prova pratica. A valle di questo processo l’assunzione viene poi deliberata dal collegio docenti. Questo processo – che ha funzionato con l’autonomia universitaria dell’ultimo decennio – aiuterebbe anche a risolvere il mismatch fra scuole e docenti, oltre a garantire la continuità didattica. Questa riforma darebbe anche la responsabilità alle scuole sul proprio corpo docenti.
Per avere un’Italia migliore non servono solo i miliardi del Next Generation Eu. Nella scuola e in molti altri settori servono tante piccole e concrete riforme che – spesso senza costi diretti per lo Stato – analizzano pragmaticamente il problema e tengono conto dell’interesse delle prossime generazioni. —
Pietro.garibaldi@unito.it