Il ruolo dell’Unione Sovietica nei nostri Anni di piombo Prosegue il dibattito dopo l’intervista a Sergio Mattarella
di Miguel Gotor
L’intervista del senatore Luigi Zanda a Simonetta Fiori su questo giornale ha rilanciato il tema delle eventuali responsabilità dell’Unione Sovietica nella diffusione del terrorismo di sinistra negli anni Settanta. Egli invita ad aprire i principali archivi delle «potenze che allora si occupavano del terrorismo internazionale. Stati Uniti e Unione Sovietica certo, ma anche Germania, Francia, Inghilterra, Israele», cui bisognerebbe aggiungere anche la Libia e le diverse fazioni palestinesi.
A questo proposito è difficile nutrire soverchie speranze: nel caso in cui degli Stati stranieri scelgano di servirsi del terrorismo per destabilizzare la realtà interna di un Paese nemico o concorrente lo fanno con cover action o interventi “sotto falsa bandiera” che non trovano riscontro negli archivi perché questo tipo di operazioni è affidata all’oralità per elementari ragioni di sicurezza e di autotutela dei loro promotori. Inoltre, se dei documenti sono sfuggiti all’autocensura e alle continue procedure di distruzione cui sono sottoposti, essi possono riaffiorare, di solito come merce di scambio e di accreditamento, soltanto quando si verifica il collasso di uno Stato a causa di guerre o di eventi rivoluzionari.
Non a caso, ciò è avvenuto con l’Unione Sovietica che nel 1991 si è dissolta con una rapidità che nel 1978 nessuno avrebbe potuto immaginare. Da quelle macerie fumanti emerse tra il 1992 e il 1995 il cosiddetto “Dossier Mitrokhin”, nell’ambito di un’operazione spionistica condotta dall’intelligence inglese.
Questa coincidenza ha consentito di individuare quei «richiami fattuali» di un’ingerenza sovietica negli eventi italiani su cui si sofferma Zanda, che negli anni Settanta è stato uno dei principali collaboratori del ministro degli Interni Cossiga. Vediamo quali, anche se in realtà ruotano tutti intorno a una sola figura, quella di Giorgio Conforto, defunto nel 1986, che il dossier Mitrokhin individuò nel 1995 come uno dei principali agenti di influenza del Kgb in Italia dai tempi del fascismo in poi. Ora, è un dato di fatto che nella casa romana di sua figlia, nel maggio 1979, fu ritrovata la mitraglietta che avrebbe ucciso Moro e vennero arrestati i brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda. Questi avevano trovato rifugio in viale Giulio Cesare su indicazione di Franco Piperno e di Lanfranco Pace, per sfuggire alla vendetta degli ex compagni delle Brigate rosse che nutrivano seri dubbi sulla lealtà della loro condotta durante il sequestro Moro.
Conforto fu ascoltato nel luglio 1979 dalla magistratura, ma si guardò bene dal rivelare il suo vero ruolo che era invece già conosciuto dal controspionaggio Sismi, dai vertici della Questura di Roma e dal procuratore capo Achille Gallucci. Nel febbraio 2004 Cossiga, durante un’audizione in Commissione Mitrokhin, ha rivelato di avere appreso dal prefetto Ferdinando Masone che Morucci e Faranda erano stati arrestati per intervento di Conforto che conosceva la vera identità dei due clandestini e li aveva consegnati alle autorità di polizia italiana.
Verrebbe fatto di pensare, nell’ambito di una collaborazione dei servizi sovietici con quelli italiani, per impedire che in Italia nascessero nuovi fuochi di guerriglia, una disponibilità non dimostrata negli anni precedenti, quando Conforto già aveva infiltrato gli esponenti di quella magmatica area eversiva. Un altro elemento, infatti, è che la sorella di Conforto, professoressa di Fisica alla Sapienza, possedeva una mansarda in via di Porta Tiburtina, che utilizzava per riposarsi tra una lezione e l’altra. Il caso vuole che sullo stesso pianerottolo la polizia scoprì il 28 aprile 1977 un covo delle Brigate rosse frequentato, tra gli altri, dal marito della Faranda. Tra centinaia di migliaia di case presenti a Roma, proprio lì.
Un t erzo dato è che la proprietaria del principale covo delle Brigate rosse nella capitale, quello di via Gradoli che ospitò Mario Moretti durante il sequestro di Moro, secondo una nota investigativa del luglio 1979 «conoscerebbe molto bene», sin dal 1969, la figlia di Giorgio Conforto che l’ex ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani ha definito nel suo libro di memorie «una seguace di Pietro Secchia», nell’ambito di un ragionamento più generale riguardante i legami intercorsi fra «i brigatisti e i superstiti secchiani, sparsi qua e là in Italia».
Riassumendo: a casa della figlia del più importante riferimento del Kgb in Italia è stata ritrovata l’arma che ha ucciso Moro e sono stati arrestati due brigatisti che parteciparono a quell’operazione. Inoltre, la stessa persona, sempre tramite la figlia, avrebbe potuto avere agevolmente dei rapporti anche con il covo di via Gradoli che ospitò Moretti. Si ammetterà che, se identici elementi fossero stati riscontrati al riguardo di un ipotetico agente di influenza della Cia in Italia, l’opinione pubblica nazionale avrebbe considerato il caso Moro chiuso, attribuendo la sua morte agli Stati Uniti. Su questi temi è necessario evitare due scorciatoie interpretative. La prima è quella che riduce la storia della lotta armata in Italia, che non si esaurisce certo nelle Brigate rosse, a una dimensione meramente criminale. Essa è stata un fenomeno troppo vasto e di lunga durata perché non abbia avuto motivazioni di carattere politico, ideologico, culturale, sociale, economico, che hanno le loro radici nella storia nazionale. Le vicende del Partito armato sono anzitutto e soprattutto una storia italiana ed è con questa verità storica che bisogna avere il coraggio di fare i conti. La seconda è quella che indugia in modelli interpretativi che vorrebbero spiegare quei fatti soltanto attraverso l’eterodirezione dei servizi di spionaggio italiani o stranieri. Una lettura semplificata, in fondo tranquillizzante in quanto autoassolutoria, che finisce paradossalmente per coincidere con la visione cospirativa e ossessionata dei terroristi.
Così facendo, infatti, non si rende giustizia alla storia d’Italia, alla difficile, ma sempre ricercata autonomia della sua classe dirigente e dei propri attori politici e sociali (e chi scelse la sciagurata strada della lotta armata questo fu), al suo ruolo storico dentro il nesso nazionale e internazionale, lungo il fronte principale della Guerra fredda ma anche dentro il campo delle tensioni mediorientali decisive per il controllo del mediterraneo, in cui anche la vicenda Moro deve essere collocata.