A Parigi, Musée d’Art Moderne, “Victor Brauner. Je suis le rêve. Je suis l’inspiration”. Esoterica e magica, policroma e “brut”: l’arte di questo ebreo errante, giunto a Parigi dalla Romania come Brancusi, si nutre di attrazioni ipnotiche
Il 6 maggio 1947 l’ammutinamento delle detenute nel carcere minorile di Fresnes, alle porte di Parigi, denuncia condizioni di vita e violenze inaccettabili, e desta un forte moto di indignazione nell’opinione pubblica francese dell’epoca. Anche i surrealisti sono dalla parte delle disobbedienti, e tra questi Victor Brauner, pronto a tradurre la rivolta delle giovani prigioniere nel proprio linguaggio policromo e brut, esoterico e magico. Lo fa in un’opera dalle dimensioni insolitamente grandi per lui: Cérémonie.
Sotto la minaccia di un sole rappresentato con la testa di morto, due figure totemiche sono all’interno di una catena, che evoca la struttura a cerchi degli schemi della tradizione ebraica. La figura maschile, in verticale, costruita dalla sovrapposizione di più animali, con una mano regge la catena e con l’altra brandisce una candela come un pugnale. Al contrario, la lunare figura femminile, in orizzontale, si ribella al carnefice serrandone il corpo tra le gambe; e se dalla coppa in una mano liba vittoriosa all’arcobaleno, con l’altra mano rompe la catena.
Siamo dinanzi a un’immagine dalla estrema semplicità formale e dal messaggio chiaro, e nondimeno l’opera esprime un linguaggio artistico ermetico assai articolato e complesso. Brauner passa in rassegna i miti di varie epoche, amalgama elementi eterogenei e sfida i millenni con cosmogonie ancestrali attualizzate alle sue più intime ricorrenze oniriche. E traslando quell’evento di ribellione su di un piano simbolico lo universalizza per celebrare la cerimonia di emancipazione femminile nell’atto di rompere la legge patriarcale.
Questa tensione tra i generi, al contempo erotica e tanatologica, è per Brauner, come del resto per gran parte dei surrealisti, motore di ossessioni oniriche e ricerche formali inesauribili. Persino negli anni più bui della seconda guerra mondiale, nascosto sui Pirenei Orientali nella vana attesa di un lasciapassare per gli Usa, Brauner indaga la dinamica dei corpi erotizzati che lo porta al concepimento del Congloméros, nome che viene dalla crasi di conglomerato ed eros. La forza di attrazione di una donna e due uomini crea nell’immaginario dell’artista questo essere mostruoso che ha tre corpi legati a una grande testa. È chiaro qui il riferimento alla mitologia greca, all’unità dell’uomo delle origini di cui Aristofane parla nel Simposio di Platone. Ma nel Congloméros viene esaltata la dimensione mentale dell’unione erotica, enfatizzata formalmente dalla testa enorme. A questa ossessione metamorfica, che nei disegni dell’artista può unire il corpo di donna anche con il mondo animale e vegetale, Brauner vuole dare consistenza fisica. Decide di uscire dalla bidimensionalità del foglio per realizzarne una scultura a grandezza umana, in modo da conferire una certa consistenza alla mostruosa figura.
Siamo nel 1945, e dopo il penoso ma proficuo esilio interiore sui Pirenei Brauner rientra a Parigi installando il suo nuovo studio all’indirizzo di Rue Perrel, in quello che fu l’atelier di Rousseau il Doganiere dal 1906 al 1910. Aiutato dallo scultore Michel Herz, sodale nel tempo della clandestinità durante la guerra, esegue la scultura di Congloméros, volendo fosse di un certo tipo di bianco e liscia, per accentuarne la presenza fantasmagorica (non sfugga in questa scelta l’attenzione al candore e alla levigatezza di alcune opere del Giacometti degli anni trenta, periodo in cui i due artisti erano stati vicini di studio).
L’opera è presentata non senza una certa eco all’esposizione internazionale Le Surréalisme en 1947, ma ciò che interessa veramente qui è il luogo in cui viene realizzata. Brauner è un fervente ammiratore dell’universo fantastico di Henri Rousseau al pari di Breton, il quale in una lettera gli scrive: «Credo tu debba realizzare una grande tela, Storia del mio atelier, dove le creature di Rousseau e le tue entrino in contatto con atteggiamenti altamente imprevedibili». L’incontro tra i due universi pittorici non si fa attendere. Uno degli elementi più ricorrenti nell’opera di Brauner è il serpente, che tuttavia non ha mai un significato univoco. E allora quale opera migliore può stimolare la sua sensibilità simbolica se non L’incantatrice di serpenti di Rousseau?
Ne La Rencontre du 2 bis rue Perrel, La Charmeuse Congloméros (1946) Brauner imita l’innocente atmosfera sospesa ed esotica dell’opera del Doganiere, riprendendone lo stile dettagliato e naïf, i colori quasi puri che offrono il gusto del minuzioso racconto di un sogno. E in questo sogno la perturbante incantatrice induce in estasi il Congloméros che le tende le braccia come serpenti. L’incontro tra i personaggi dei due artisti è dunque avvenuto formalmente sotto il segno di un’attrazione ipnotica. Ma per dare ulteriore consistenza all’unione, al di là della letteralità dell’immagine, Brauner riprende la dottrina ebraica della cabala e scrive sull’opera in basso a destra il nome dei due artisti e delle due opere il cui numero di lettere fatalmente coincide. In sostanza questo ulteriore vincolo infonde un soffio magico all’unione dei due spiriti, che Breton chiama casualità obbiettiva. Breton chiarisce questo concetto deterministico di casualità (di hasard objectif appunto) definendolo come una forma di manifestazione della necessità esteriore che trova la sua strada nell’inconscio umano. Ed è dunque per una casualità obbiettiva che Brauner si ritrova a lavorare nello studio di Rousseau il Doganiere. Così come è una casualità obbiettiva l’autoritratto del 1931 in cui l’artista si ritrae con un occhio sfigurato.
Brauner realizza quest’opera sette anni prima di perdere accidentalmente un occhio durante una rissa nell’atelier del pittore spagnolo Dominguez. «Questa mutilazione è presente nella mia coscienza come il primo giorno, costituendo il fatto più doloroso e più importante della mia vita, essenza del mio sviluppo vitale», come ricorda in un’intervista. E certamente quell’autoritratto del 1931, dopo il drammatico incidente, non è più per Brauner una semplice ossessione artistica sul tema dell’occhio (come lo era per Giacometti, Bataille, Man Ray, per citarne alcuni), ma diviene un «documento» che gli offre, anche tra i surrealisti, un surplus di chiaroveggenza, di memoria del futuro.
Di questa visionarietà che precede attraversa e supera il surrealismo, con più di un centinaio di opere in ordine cronologico, dà ora conto la mostra al Musée d’Art Moderne di Parigi: Victor Brauner Je suis le rêve. Je suis l’inspiration (in corso fino al 10 gennaio 2021).
Un’esperienza artistica e umana, quella di questo ebreo errante, che, partito dalla Romania con propensione per l’occulto e per qualsiasi ismo avanguardista, negli anni venti approda brevemente nell’atelier parigino del compatriota Brancusi; si fa strada nel surrealismo con velati enigmi dechirichiani, per attraversare poi la lunga notte di una pittura dal linguaggio del tutto personale.
Per quanto Brauner sia andato sempre più appiattendo e astraendo le proprie rappresentazioni, ha lasciato un’opera dallo sfaccettato legame con la realtà. Una realtà indagata talvolta con l’umore feroce dell’impegno politico antitotalitario dall’accento dada, come nella serie intorno al Monsieur K. degli anni trenta. Talaltra con ibride rappresentazioni di mitologie private antropomorfe e zoomorfe, come nella produzione degli anni quaranta. E infine con la perturbante delicatezza di cosmogonie universali, come nelle serie Mythologies e Fête des Mères del 1965, anno di prolifiche novazioni formali prima della sua morte.
Fotografia dal web (se la pubblicazione viola eventuali diritti d’autore, vi chiediamo di comunicarcelo e provvederemo immediatamente alla rimozione)