Il Congresso nega a Barack Obama i poteri per concludere accordi internazionali di libero scambio e a questo punto i negoziati che gli Stati Uniti hanno in corso da anni con i Paesi del Pacifico e quelli della Ue, dovranno essere congelati. Una sconfitta doppiamente bruciante per il presidente: perché blocca, forse definitivamente, una parte essenziale del suo programma e della sua eredità politica, il «Free Trade» col quale rafforzare i legami con gli alleati in Asia ed Europa, e perché ad infliggergliela è stato soprattutto il suo stesso partito, quello democratico. L’approvazione del provvedimento al Senato, che l’aveva votato il 23 maggio scorso, aveva illuso Obama: pensava di spuntarla anche alla Camera con un capovolgimento di alleanze, visto che i repubblicani, che in quell’aula dispongono di un’ampia maggioranza, si sono sempre detti favorevoli a un provvedimento che va nella direzione del liberismo economico.
I poteri speciali per firmare e poi attuare trattati commerciali vincolanti, il cosiddetto «Fast Track», dovrebbero durare sei anni: più che Obama, ormai giunto all’ultimo anno e mezzo della sua presidenza, a beneficiarne sarebbe il suo successore, forse un repubblicano. Ma, anche se l’America rimane un Paese fortemente legato alle logiche di mercato, il «Free Trade» con l’Asia negli ultimi anni è divenuto sempre meno popolare. Per lo schiacciamento di parti del ceto medio che hanno sofferto in modo molto forte per la globalizzazione, ma anche perché la necessaria segretezza dei negoziati ha alimentato nuove teorie di complotti.
Obama ha preso sottogamba le difficoltà mentre i malumori dei sindacati e della sinistra liberal si saldavano con quelli dei populisti del partito conservatore: il presidente ha capito che le cose si mettevano male solo giovedì sera quando, in una votazione preliminare sul «Fast Track», c’è stata la defezione di ben 34 deputati repubblicani. Il leader dei conservatori alla Camera, John Boehner, ha salvato il provvedimento con un margine di appena 3 voti solo perché è riuscito in extremis a convincere 8 democratici a votare la norma. Obama è sceso in campo personalmente raggiungendo i leader del Congresso allo stadio, sugli spalti di una partita di baseball, e ieri mattina recandosi in Parlamento. Troppo tardi: il calcolo della Casa Bianca che pensava di avere i consensi per far passare i poteri presidenziali coi voti dei repubblicani, mentre per la parte sui sussidi ai lavoratori penalizzati contava su quelli dei democratici, è saltato quando il partito del presidente ha votato anche contro questo provvedimento assistenziale (inviso a molti repubblicani) pur di far saltare tutto. Sconfitta schiacciante (302 no, 126 sì), non si è nemmeno passati a votare i poteri presidenziali.
Intanto, mentre subisce un grave scacco nei rapporti con l’Asia e la Ue, Obama manda alla Russia quello che molti interpretano come un piccolo segnale d’apertura, a sfondo commerciale. Se da un lato enfatizza la necessità di tenere duro sulle sanzioni economiche per cercare di costringere il Cremlino a cambiare rotta sull’aggressione all’Ucraina, dall’altro la Casa Bianca decide di non esercitare pressioni sui capi dei grandi gruppi americani affinché non partecipino al forum economico di San Pietroburgo, la Davos della Russia, in calendario per la prossima settimana. L’anno scorso venne chiesto esplicitamente ai grandi gruppi di boicottare l’evento. Stavolta alcuni diplomatici hanno rivelato al Financial Times che la linea Usa è: «Se ci chiedete, noi sconsigliamo di andare, se andate senza chiedere non verrete puniti». E molti big andranno.
Massimo Gaggi