Bisanzio è un Tarocco

L’affresco di Benozzo Gozzoli, la cappella Mazzatosta a Viterbo e le carte attribuite a Mantegna. Nella pittura del secondo Quattrocento affiora l’ultimo sogno dell’impero d’Oriente
di Antonio Rocca
I più antichi documenti riferiti ai tarocchi appaiono intorno al 1440 a Firenze e Ferrara, all’indomani del concilio che s’era tenuto proprio in quelle due città nel vano tentativo di arrestare la caduta dell’Impero bizantino. All’ambiente ferrarese si fa risalire anche il cosiddetto mazzo del Mantegna, caratterizzato da un’ambizione didascalico-enciclopedica. Questo mazzo è tuttavia più tardo e fu concepito nel periodo immediatamente successivo al congresso di Mantova del 1459, città nella quale in quel momento Andrea Mantegna era impegnato a dipingere un’Adorazione dei Magi ricca di barbe alla greca e cappelli bizantini.
L’associazione di questi elementi suggerisce un legame tra la presenza dei bizantini e l’esigenza di forgiare un linguaggio iconico, una lingua universale utile a facilitare quel passaggio a occidente del sapere classico che è stato colonna portante del Rinascimento.
Spinti dall’avanzata turca giungevano in Italia uomini e libri che ritroviamo in un altro Corteo di Magi, quello celebre di Benozzo Gozzoli, al Palazzo Medici Riccardi di Firenze. Una volta restituito all’affresco fiorentino il suo vasto orizzonte, accanto ai membri della dinastia imperiale Paleologa e tra gli altri notabili bizantini è possibile individuare i ritratti di Pletone, capofila dei neoplatonici, del suo discepolo Bessarione, accompagnato dall’inseparabile Niccolò Perotti, e di Giovanni Argiropulo, riconoscibile per il caratteristico turbante. In questa storia, che è anche una vicenda di trasmissione di libri, è utile sottolineare che Argiropulo fu maestro del Plàtina, futuro prefetto della Biblioteca Vaticana.
S’era allora alla vigilia degli anni Sessanta del Quattrocento, pontefice era l’umanista Enea Silvio Piccolomini. Legatissimo al Bessarione, Pio II aveva fortemente voluto la fondazione di una città destinata a tenere assieme il passato classico e il presente cristiano. La morte del Piccolomini congelò l’inverarsi di quell’utopia e Pienza rimase un cantiere incompiuto.
L’elezione di Paolo II cambiò tutto e allora di quell’immaginario popolato di crociate, di chimere cristallizzate sui colli senesi o di matrimoni tra Zoe Paleologa e un principe latino, resta traccia solo nella dimensione virtuale dell’arte, nelle immagini che il Bessarione fece realizzare per la sua cappella in Santi Apostoli a Roma o nella viterbese Santa Maria della Verità. In questa chiesa, affacciata sulla Francigena a metà strada tra Roma e Pienza, i Mazzatosta affidarono a Lorenzo da Viterbo la realizzazione di un programma iconografico che lasciava risuonare le ambizioni del partito filogreco, una fazione corroborata dalla presenza di Niccolò Perotti che era di stanza a Viterbo in qualità di rettore del Patrimonio di San Pietro in Tuscia. Al tramonto degli anni Sessanta del Quattrocento un filo invisibile lega Ferrara e Mantova, città dei concili, a Viterbo. Come in un sistema di vasi comunicanti affiorano contemporaneamente la Sala dei mesi, la Camera degli sposi e la cappella Mazzatosta, ed è in quest’ultimo ciclo che prende forma l’ultimo sogno dell’ultimo bizantino.
Nella parete sinistra, la sola attribuita Lorenzo, la narrazione è impaginata su due registri sovrapposti dalla cui lettura complementare appare una sorta di manifesto della strategia bessarionea. In alto la Presentazione al tempio tracima dal tema per divenire raffigurazione di una città ideale, eco della fantasticheria pientina, in basso lo Sposalizio della Vergine è figura dell’auspicato patto tra oriente e occidente che doveva manifestarsi simbolicamente proprio nella cittadina voluta da Pio II. Ma l’arte si leva al crepuscolo e l’improvviso mutare del panorama politico impose ai committenti repentine evoluzioni. La decorazione della parete procede infatti parallelamente all’acuirsi della guerra di posizione tra la cerchia dei Pieschi e l’entourage di Paolo II. Il nuovo pontefice era impegnato a smantellare la tela tessuta dal suo predecessore, una rete di cui facevano parte il Bessarione e l’Accademia Romana di Pomponio Leto. Nel 1468, con l’accusa di aver ordito un complotto per ripristinare la repubblica, finivano in carcere Pomponio Leto e il Plàtina. Bessarione, obiettivo non dichiarato di quella campagna, comprese che era a rischio la sua collezione di manoscritti e incunaboli. Su quei libri, memoria e futuro della sua civiltà, sentiva pendere il pericolo di un rogo simile a quello che aveva divorato i testi di Pletone.
Provato da decenni di vittorie di carta e di crociate annunciate, l’anziano cardinale impegnò tutto il suo prestigio per far liberare il Plàtina e per mettere in salvo la sua biblioteca che fu donata a San Marco, l’unica chiesa veneziana posta sotto il controllo dei Dogi e quindi sottratta agli arbitri papali. Le prime casse, nucleo fondante della Biblioteca Marciana, arrivarono a Venezia nell’aprile del 1469. Era una guerra contro il tempo, il 17 dello stesso mese Niccolò Perotti, sollevato dall’incarico, dovette lasciare Viterbo. Sul Perotti si riversarono allora le accuse più infamanti, calunnie riportate con qualche compiacimento dal cronista Nicola Della Tuccia: «Si diceva che era pessimo sodomita. Secondo l’operazioni che fece costui, non aveva Iddio per guida sua, ma piuttosto il nemico dell’umana natura».
I Mazzatosta corsero ai ripari facendo inserire tra i notabili dello Sposalizio lo stesso Della Tuccia, che così scrive: « mastro Lorenzo volse pingere me e cavarmi dal naturale, e così fé. Ove vederete uno omo antico d’età sessant’otto e mezzo o circa, vestito di pagonazzo e col mantello addosso, e una berretta tonda in testa, e calze nere. E quello è fatto alla similitudine mia, fatta ai 26 d’aprile 1469. E quelle persone che vorranno leggere miei scritture e conoscermi, vengano a vedere in quello loco. L’altre figure sono fatte a similitudine d’altri delli quali al presente non fo memoria».
Il cronista ha quindi condannato all’oblio l’intera cerchia filobizantina, sollevando una cortina di nebbia diradata solo recentemente da Silvia Ronchey, che, nel suo L’enigma di Piero, ha individuato l’Argiropulo tra i personaggi del corteo nuziale. Nelle fotografie che precedono il bombardamento è possibile riconoscere il vecchio maestro del Plàtina, con il suo tipico copricapo, disposto alle spalle del sacerdote, ritratto ideale del Bessarione. L’evanescenza di quelle figure, solo tratteggiate dal restauro diretto da Cesare Brandi, ci ricordano che le nostre ricostruzioni sono sogni di sogni, ma ciò non toglie che chi oggi osservi lo Sposalizio potrà vedere Bessarione riaffiorare dalle lacune nell’istante che precede il coronamento del suo progetto esistenziale, nel momento in cui perfeziona il connubio tra due mondi. Poi l’immagine s’incrina, nelle crepe s’insinua il sentimento della sconfitta e man mano che si avanza verso il termine dell’affresco, dal punto segnato dall’apparizione del Della Tuccia, ci è negato il volto dei bizantini, ne vediamo infine un ultimo, ma ci volge le spalle. Gli esuli di Bisanzio tornavano a oriente, conducendo con sé la speranza di un’unione annunciata eppure mai davvero raggiunta. Forse s’avviano verso Mosca, la nuova capitale che il matrimonio tra Zoe Paleologa e Ivan III proponeva come Terza Roma. Le nozze furono celebrate nel novembre 1472, due settimane dopo moriva Bessarione.
www.repubblica.it › argomenti › Robinson