Bernard-Henri Lévy: giù la maschera, Covid-19

Il virus ci ha reso folli: tutto il potere è ormai nelle mani dei medici e la salute vale molto più della libertà. In un pamphlet l’ultima provocazione del filosofo francese. Intervista
PARIGI. “Sarebbe stato un bello scatto, vero?”. Bernard-Henri Lévy scherza con il fotografo dopo che un uccellino si è posato per qualche secondo sulla sua gamba. Seduto nel giardino di un albergo vicino agli Champs-Elysées, Lévy trasmette una sensazione di controllo assoluto della sua immagine, mantiene una certa distanza anche se poi ci tiene ad avvicinarsi per stringere la mano, onorando “quel gesto di fraternità che fa parte della nostra civiltà”. Non c’è bisogno di un test sierologico per sapere che il filosofo e giornalista è immunizzato dal Covid, o almeno dalla psicosi che ha accompagnato il virus.

“Sono stato raggelato dall’epidemia di paura” dice “Bhl”, 71 anni, ricordando i suoi articoli pubblicati fin da marzo su Stampa e Repubblica per allertare contro quello che vedeva come il rischio di una straordinaria sottomissione collettiva, un eccessivo potere medico, l’avvento di un nuovo igienismo. Se la missione di un intellettuale è anche scuotere le coscienze, aprire il dibattito, Lévy ci è riuscito. Il suo ultimo pamphlet, Il virus che rende folli (La Nave di Teseo), è già un bestseller oltralpe e farà discutere anche in Italia. Abituato a fare incursioni nelle grandi tragedie umanitarie, per raccontare l’ultima crisi internazionale non ha avuto bisogno di muoversi dal suo appartamento parigino. Gli è bastato accendere la televisione, ascoltare i dibattiti durante il lockdown sulla sacralizzazione della vita e le utopie del mondo post-Covid, mentre secondo lui pochi riflettevano sul costo di “un coma autoinflitto alla quasi totalità del pianeta, trasformatosi nel laboratorio di un’esperienza politica radicale”.

Perché così pochi intellettuali hanno espresso una voce critica?
“È sicura? In Italia c’è stato Giorgio Agamben. In Francia, André Comte-Sponville. Negli Stati Uniti, Timothy Snyder. C’è un vero e proprio moto di rivolta contro il tipo di ordine sociale che sta uscendo dalla crisi del Covid”.

Siamo reduci da quella che lei definisce “Prima paura mondiale”…
“Per la prima volta l’umanità intera ha avuto paura della stessa cosa, nello stesso momento. Ovviamente gioco sul riferimento alla Prima guerra mondiale, anche se è vero che siamo in grande pericolo. Possiamo morire di Covid, ma anche di fame, di miseria, di disperazione, di solitudine e di tutte le altre malattie più antiche che gli ospedali non hanno più avuto tempo di curare”.

E adesso, è finita?
“Vorrei che questa fosse anche l’ultima paura mondiale. So che i virus torneranno, il Covid o un altro, perché fanno parte della storia dell’umanità. Ho scritto questo libro in modo da essere più preparati la prossima volta”.

Immagino non si riferisca a mascherine e tamponi.
“No, parlo di preparazione intellettuale e morale. Spero che la prossima volta saremo capaci di reagire con meno isteria, più sangue freddo”.

Questa reazione è il sintomo di qualcosa di più profondo?
“Prima del Covid vivevamo in un sogno post-umanista dove quasi tutto era curabile. Stavamo assistendo all’espulsione del Tragico dalle nostre vite. E invece il Tragico è riemerso attraverso il virus”.

Cosa ha pensato quando l’Italia ha scelto il lockdown, primo Paese in Occidente?
“Sono rimasto sorpreso. Gli italiani ne hanno passate tante: le Brigate Rosse, gli attacchi della mafia… Tanto orrore quotidiano che non ha mai impedito di uscire, continuare la vita. Questa volta gli italiani sono stati docili. Hanno accettato di restare a casa senza fare storie né sgarrare. È come se fosse nato un nuovo patto sociale: scambiamo la nostra libertà per la massima sicurezza sanitaria”.

Un patto che lei rifiuta?
“Il lockdown era necessario. In Francia, naturalmente, l’ho rispettato. Non credo però in questa “sicurezza sanitaria”. Non credo che la salute sia lo scopo della vita”.

La paura della morte e della malattia… non la prova anche lei?
“Tocca anche me ma lo scopo della vita è altrove. È l’amore dell’altro. L’amore tout court. Il pensiero. Cambiare il mondo”.

Lei cita la frase “Il miglior medico del mondo andrà all’inferno”. Che cosa vuol dire?
“È una frase del Talmud. Il miglior medico è un esperto nel trattamento dei corpi ma è così esperto che si preoccupa solo di quello. E dimentica quel fascio di luce, quel lampo che ci attraversa e fa sì che un corpo prenda vita, diventando un soggetto singolare. Ecco perché quel medico va all’inferno”.

Critica la professione medica?
“Mi infastidiscono i chiacchieroni, e rendo omaggio a coloro che hanno prodigato le cure. Le infermiere e gli infermieri che facevano il loro lavoro negli ospedali erano ammirevoli. I medici che hanno invaso le televisioni e giocato a fare gli oracoli avrebbero fatto meglio ad astenersi”.

Sia in Italia che in Francia, i governi hanno spesso preso decisioni politiche solo dopo aver ascoltato il parere di un comitato scientifico.
“È ridicolo. Il comitato scientifico non sapeva tutto. E poi, cosa ancora più importante, c’erano altre persone che sapevano. Gli psicologi. Gli esperti di scienze sociali. I sindacalisti. I rappresentanti dei disoccupati. Le ong che si occupano di migranti”.

Si poteva affrontare l’emergenza in modo diverso?
“Ripeto: avremmo dovuto ascoltare anche opinioni diverse da quelle dei medici che facevano il giro della Rai o BfmTv. E poi probabilmente era necessario un lockdown meno brutale e più differenziato”.

I tedeschi hanno fatto così. Alla fine sono stati meno pazzi di noi?
“Hanno preso meno rischi”.

O più rischi?
“Cito il padre dell’anatomia patologica Rudolf Virchow, che disse: “Un’epidemia è un fenomeno sociale che ha alcuni aspetti medici”. Dal punto di vista sociale, ciò di cui mi occupo, abbiamo rischiato molto. Un mondo in cui non ci stringiamo più la mano, in cui non seppelliamo più i morti, in cui diffidiamo l’uno dell’altro, va verso una regressione della civiltà”.

Molti dei sacrifici imposti sono serviti a proteggere le persone più fragili. Non è un segno di solidarietà?
“Mi piacerebbe pensarla così se non fosse che questa solidarietà ha escluso tre quarti dell’umanità. L’umanesimo, o la fraternità, deve essere senza frontiere, altrimenti non esiste. In Francia ci sono stati bei gesti di solidarietà ma anche un’epidemia di delazioni”.

Lei scrive: abbiamo avuto la scelta tra vivere alla cinese o morire.
“La Cina ci ha imposto un modello problematico, il confinamento, e un altro, ancora più folle, il tracciamento. A un certo punto si diceva “tracciare, testare, isolare” quasi come si dice “liberté, égalité, fraternité“”.

Scaricherà l’app StopCovid, l’equivalente della nostra Immuni?
“Certo che no. Non c’è motivo per cui debba essere costantemente spiato da cosiddette brigate di angeli custodi”.

Si tratta di un sistema volontario per aiutare a fermare l’epidemia nel caso in cui dovesse ripartire.
“E io continuo a dirle che salvare vite è bene. Ma la vita libera è ancora meglio. Ci deve essere un modo per combattere una pandemia senza cadere nella trappola dello stato di sorveglianza sanitaria”.

I primi aerei che portavano mascherine e aiuti all’Italia arrivavano da Cina e Russia. E l’Europa?
“È stato un momento doloroso. Ma da allora, con il piano Merkel-Macron, l’Europa ha recuperato”.

Quanto sono lontani dall’Europa gli Stati Uniti in questa crisi?
“È la prima volta nella storia della modernità che non ci aspettiamo nulla dagli Stati Uniti. Di conseguenza, i bastardi hanno potuto tranquillamente avanzare le loro pedine. È quello che hanno fatto Orbán, Putin, Assad. E noi ora dobbiamo affrontarli da soli, senza gli Stati Uniti. Ciò che succede all’Europa, a Trump non frega nulla”.

Lei come ha vissuto il lockdown?
“Prima di tutto rifiutando di pronunciare la parola confinement. Troppo brutta. Troppo sporca. Sono stati i fascisti sotto Mussolini che mandavano al confino i loro avversari, giusto? Sono rimasto a casa, a Parigi, e ho usato la mia penna per ricordare, per esempio, che quando avevamo 1.000 morti in Francia, ce n’erano ancora di più nel mondo che morivano di malattie o di fame di cui non ci importava più nulla”.

Non teme di essere messo sullo stesso piano di Trump e Bolsonaro?
“Ci è stata offerta la scelta tra negazione e delirio, nevrosi e psicosi. Credo che fosse possibile un altro atteggiamento, sostenuto da medici ragionevoli: d’accordo per il lockdown ma rimarcandone gli effetti perversi”.

È sorpreso dalle manifestazioni antirazziste in Francia sull’onda del movimento americano?
” Il fatto che la fine del lockdown sia accompagnata da una rivolta mondiale contro il razzismo mi dà speranza. Ma abbiamo visto nei cortei anche cartelli tipo “Israele criminale”. Cosa c’entra? Quando Michel Foucault vuole abolire i reparti di massimo isolamento nelle carceri, non vuole al tempo stesso ridurre la disoccupazione. Foucault non credeva nella convergenza delle lotte. Difendeva l’idea dell’intellettuale specialista”.

È così che si definirebbe?
“Torno da Lesbo, in Grecia, dove sono andato ad ascoltare i migranti. Non approfitto della loro sfortuna per trasformarli in comparse di una drammaturgia più grande”.

Ogni volta però individua anche una battaglia. Ha iniziato quarant’anni fa con il primo viaggio in Bangladesh sul nazionalismo…
“Combatto per le persone di cui parlo. Quando sono in Ucraina e vado in prima linea nel Donbass non combatto contro Putin. Chiedo solo che la guerra finisca”.

C’è qualche causa per cui rimpiange di essersi impegnato?
“Nessuna”.

In Libia rifarebbe tutto uguale?
“Certo. Era nostro dovere intervenire nel 2011 per impedire un massacro di innocenti. In seguito avremmo dovuto anche evitare che Erdogan e Putin diventassero i nuovi padroni della Libia. Le faccio una confidenza”.

Mi dica.
“Nel 2012, incontrando François Hollande qualche settimana prima della sua elezione, gli ho detto che avrei votato per lui se si fosse occupato della Libia. Devo aver frainteso la sua risposta perché non l’ha fatto”.

Nel 2017 ha invece appoggiato Macron. Lo sostiene ancora?
“Per il momento, sì. Non vedo nessun altro che possa battere un candidato populista”.

Perché l’attuale presidente è così odiato da una parte dei francesi?
“In politica si odia spesso per cattive ragioni. Nel caso di Macron sono chiare. È giovane, brillante, etc”.

Macron governa una Francia attraversata da crisi a ripetizione. I gilet gialli. La stagione degli scioperi.
“Succede pure in Italia. Avete appena lasciato Salvini, ma potreste ritrovarlo. Abbiamo un mondo che si disfa. E gli Stati Uniti stanno esplodendo”.

Come si sente Bernard-Henri Lévy davanti al personaggio Bhl che alcuni descrivono come arrogante ed egocentrico?
“Per essere un egocentrico mi interesso molto agli altri, non trova? E comunque me ne infischio di cosa dice la gente”.

Il suo libro finisce con la parola “rabbia”. È questo il suo motore?
“La buona rabbia, la rabbia di Achille nell’Iliade, è l’inizio del pensiero. Non è una passione triste. L’odio invece sì, è una triste passione”.

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