di Beppe Severgnini
Prendiamolo come un grido di dolore. Una manifestazione di frustrazione. Una richiesta di aiuto, dopo le provocazioni di Pompei e i disastri in serie a Roma. La proposta di Graziano Delrio, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, di «far rientrare la fruizione dei beni culturali tra i servizi pubblici essenziali», è tutte queste cose insieme. Comprensibile, dunque. Ma poco realistica.
La materia è regolata dalla legge 145/1990. L’intento è bilanciare il diritto di sciopero con «i diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione ed alla libertà di comunicazione».
La legge considera servizi pubblici essenziali i servizi destinati al godimento di tali diritti, a prescindere dalla natura del rapporto di lavoro (pubblico o privato, dipendente o autonomo).
I beni culturali sono fondamentali per l’Italia e per tutti gli italiani di buon senso. E costituiscono, notoriamente, un’immensa attrazione turistica. Equipararli agli ospedali, ai trasporti pubblici o alla fornitura d’energia elettrica, tuttavia, sembra azzardato. E, probabilmente, inutile. Guardate cosa accade, per esempio, nel campo dei trasporti.
Nessuna legge — nessun amministratore, nessun magistrato, nessun prefetto, nessun governo — è riuscito ad impedire che piccole sigle sindacali, in lotta tra loro, bloccassero aeroporti, cancellassero autobus, fermassero treni e traghetti.
Ha scritto Dario Di Vico sul Corriere (2 luglio): «Nel 2014 in Italia ci sono stati, nei servizi pubblici essenziali, 1.233 scioperi ovvero più di 3,3 scioperi al giorno. Siamo rimasti grosso modo ai livelli del 2013 quando le astensioni dal lavoro erano state 1.279». Quattro volte su dieci, riporta Mattia Feltri su La Stampa (25 luglio), le agitazioni sono avvenute al venerdì o al lunedì (una coincidenza, secondo voi?).
Forse, invece di inventare leggi nuove, dovremmo far funzionare quelle esistenti. Per esempio, l’istituto della precettazione, regolato dalla stessa legge del 1990. Nel caso di conflitto di rilevanza nazionale o interregionale, la precettazione può arrivare anche da un’ordinanza della presidenza del Consiglio. Riassumendo: se i beni culturali sono tanto importanti (lo sono), il ministro Delrio si rivolga al suo capo, Matteo Renzi. E questi, contenuta la «rabbia incontenibile», provveda.
Un’altra cosa si potrebbe fare subito. Reintrodurre il ministro del Turismo: qualcuno che si occupi a tempo pieno della materia e ne prenda la responsabilità. Oggi esiste un Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, conosciuto con la sigla MiBACT (sic). È come se la Norvegia affidasse alla stessa persona il dicastero della Pesca e quello del Petrolio. D’accordo, tutt’e due avvengono in mare e portano ricchezza: ma non basta.
Nessuno dubita della buona volontà del ministro in carica, Dario Franceschini. Ma pensare di poter gestire insieme beni culturali e turismo, in un Paese come l’Italia, è velleitario. Esistono questioni turistiche — l’inaffidabile classificazione alberghiera, la timida risposta a Tripadvisor & C., la spettacolare inutilità dell’Enit — che hanno poco a che fare coi beni culturali. Ed esistono beni culturali da valorizzare e proteggere, al dà dell’immediato ritorno turistico.
Non abbiamo il monopolio di questi problemi. Un confronto tra il calendario degli scioperi francesi ( http://www.cestlagreve.fr/calendrier ) e quello degli scioperi italiani ( http://www.cgsse.it/web/guest/elenco-scioperi ) rende difficile assegnare il primato continentale. Altre metropoli — non solo Roma — presentano ai visitatori lati sgradevoli: alcuni quartieri di New York sono infestati dai ratti, Londra e Parigi ogni mattina mostrano le conseguenze maleodoranti delle notti alcoliche. Ma solo in Italia, tra le grandi democrazie, la concentrazione di bellezza e incoscienza raggiunge certi livelli.