De mortuis nihil nisi bonum: dei morti si dica solo bene. Alla prudenza degli antichi romani preferisco però la schiettezza illuminista di Voltaire, secondo il quale ai morti si doveva soltanto la verità. Quella che per esempio nessuno dirà o scriverà mai su Franco Battiato. Sicché chi qui cerchi infatti il solito coccodrillo sul “grande intellettuale” o sull’“eccelso maestro” masticherà amaro.

Iniziai ad ascoltarlo poco prima di compiere diciotto anni. Provenivo, e ancora ci resto, dal mondo della musica così detta classica e Battiato era un universo lontanissimo, restandolo anche quando fui tentato di avvicinarne l’arte nel 1992 a seguito di un articolo che lo magnificava, tanto per cambiare, quale «cantautore filosofo», in occasione dell’uscita di Gilgamesh, la sua seconda “opera lirica”. Passò in cavalleria e solo nel 1998, attorno ai miei diciotto anni, forse in un momento di debolezza, mi avventai su un paio di suoi dischi restandone incantato ed entrando in un periodo di autentico fanatismo. C’era in sostanza solo Battiato.

Tanto per dire nel 1999 fui operato e sul comodino dell’ospedale, invece di quella della mia ragazza, c’era una sua foto. E, coincidenza, era il 23 marzo, giorno del suo compleanno. L’operazione andò malissimo, ma era un’altra coincidenza. Fuori dall’ospedale, proprio davanti all’ingresso, campeggiava un cartellone che annunciava il passaggio nella mia città del tour di Gommalacca, l’ultimo album, uscito l’anno precedente. Feci il diavolo a quattro affinché mi dimettessero per tempo e capitò così. Andai al concerto mezzo convalescente e per poco non mi saltarono i punti.

Per me Battiato era una malattia tardo adolescenziale, quindi di quelle pesanti e da cui guarire è difficile. Anche perché egli non rappresentava solo uno squarcio di luce in un panorama musicale per me lontano ed estraneo in quanto respingente, ma perché dietro di lui c’era tutto un mondo che credevo fosse il mio mondo: Gurdjieff, i cui gruppi avevo scoperto poco prima di sapere dell’esistenza di Battiato, il sufismo, la mistica cristiana e via elencando.

Nel 2001 lo conobbi e iniziai a frequentarlo, soprattutto al telefono per via della distanza abissale. Ogni tanto però riuscivo a compiere un’incursione a Milano, dove egli aveva una casa, con la scusa di qualche intervista. Uno dei motivi, credevo allora, per cui valesse la pena svolgere l’attività giornalistica. Quando di tanto in tanto passava da Torino, dove abitavo, ci si incontrava. Ecco, quando si dice che i propri idoli vanno sempre o quasi sempre visti da lontano, è soltanto vero. Ed è qui che i sensibili e i suscettibili è meglio si dileguino.

Capii tutto sommato abbastanza presto che mi ero innamorato di un cretino. Seguitavo nel mio percorso gurdjieffiano e oltre. Quando dico che era il mio mondo, non è tanto per dire. E, coi miei limiti, facevo il possibile per cercare di conoscerlo il più a fondo possibile. Giovane, ritenevo opportuno un confronto e pertanto qualche volta alzavo il telefono. Battiato, con una puntualità sconcertante, di chiacchierata in chiacchierata si dimostrava, appunto, un cretino. Una confusione di idee rara in chi diceva di essersi dedicato per tutta l’esistenza alla ricerca interiore. E questa confusione non aveva ancora nulla a che vedere con quanto sarebbe evidentemente scoppiato anni dopo e di cui diremo a breve.

Egli era anche una scenografia di cartapesta. Uno che non solo aveva difficoltà a distinguere le basi di certi pratiche o di certi concetti, ma che pure, in privato, aveva una boria che andava in direzione affatto contraria ai ritratti alati che se ne tratteggiavano e, ça va sans dire, se ne tratteggiano in questi giorni di lutto. A due metri da lui l’alone aristocratico svaporava. Alcuni aneddoti.

Altercammo non poco quando nel 2004 annunciava a dritta e a mancina la preparazione di una pellicola su Beethoven, che poi sarebbe stata Musikanten. Diceva di aver letto, in quattro lingue, ventisette volumi sul compositore, più l’epistolario. Quell’anno era uscita per Rizzoli la monografia di Buscaroli e lo chiamai per parlargliene, anche se credevo e speravo l’avesse almeno acquistata. Mi sentii rispondere che sono solo non ne aveva sentito parlare, ma che non intendeva leggerla. Motivo? Buscaroli era, nel suo linguaggio, un «superaggettivista e un fascista». Poi, quando gli chiesi se volesse parlare di musica e di Beethoven oppure di fatti marginali, mi disse con tono di sfida: «Dai, sentiamo cosa avete da dire tu e Buscaroli». Gli illustrai le potenti revisioni che la monografia offriva su diversi aspetti della vita e dell’arte beethoveniane, citandogli tra l’altro le scoperte sconcertanti sul Fidelio. La risposta di Battiato mi ghiacciò: «Chi se ne frega del Fidelio». Passai così ad altri esempi e la risposta fu sempre la stessa. Ovviamente rinunciai, forse un po’ in ritardo.

In Musikanten c’è una scena in cui un attore guarda alla televisione (che poi è quella che Battiato aveva nel salotto della casa milanese) il frammento di un peraltro bellissimo documentario su Sergiu Celibidache (Le jardin de Celibidache), il sommo direttore d’orchestra romeno. Qualche mese avanti glielo avevo imprestato, in doppia copia perché una era un poco difettosa, per surrogare alla sua richiesta di procurargli dei testi in tedesco di Celibidache che non ero riuscito a scovare. Non solo non mi restituì mai i dischi, ma si degnò mai di ringraziarmi in nessun modo.

Identico comportamento ebbe quando gli parlai di Stefano Landi in un periodo in cui egli stava svolgendo ricerche su compositori europei sconosciuti. Non sapeva nemmeno chi fosse, ad esempio – ma lo dico malissimo – l’inventore della sinfonia operistica. Poco male. Peccato poi che quando uscì, nel 2013, l’album Apriti sesamo la prima canzone, Passacaglia della vita, sia un furto proprio da Landi, anche se Battiato cascò male perché l’attribuzione è forse spuria. La rielaborazione di brani classici (Un vecchio cameriere è un adattamento da Haydn, in Ferro battuto saccheggia Čaikovskij, in Patriots Wagner) era una sua cifra, si sa, come anche l’irriconoscenza.

Ancora. Nel 2007 gli proposi di sbobinare alcune sezioni della sua trasmissione televisiva Bitte, keine Réclame per poi farne un libro. Mi diede il suo assenso entusiastico. Lavorai parecchio, poi scopersi non solo che Battiato ignorava il significato di «sbobinare» e aveva capito che volessi solo fare un montaggio. Quando capì che cosa avessi fatto, balbettò qualcosa e mi disse che in ogni caso l’idea gli piaceva e che se ne sarebbe fatto un libro. Mai accaduto. Anni dopo l’uscita di Musikanten gli scrissi perché un amico era interessato a una pratica curativa mostrata nella pellicola. Ho ancora lo scambio epistolare: in sostanza mi replicò, scocciatissimo, che erano fatti suoi. «Stop», mi scrisse. Lo rintuzzai avvertendolo che se non voleva ingerenze nella sua vita privata (si trattava poi di un alluce), avrebbe dovuto cambiare missione e cessare di fare il guru. Egli si diede una calmata, tuttavia senza fornirmi ulteriori indicazioni. Chi legge ricorderà d’altra parte l’atteggiamento strafottente e sprezzante in alcune interviste degli anni Ottanta, ossia quando Battiato raggiunse il successo. Col tempo, in pubblico, si sarebbe dato una regolata, ma proprio solo una, ma in privato abbiam visto.

Potrei andare avanti per ancora parecchie pagine su questi aspetti, ma per pietà mi fermo. Avevo abbastanza presto dismesso la venerazione per lui anche se, per simpatia, avevo deciso di non mandarlo a quel paese. A un certo punto mi stancai davvero e proseguii per la mia strada.

C’è poi il côté culturale o, se preferite, spirituale. Spigolo: nel 1979 scrive Il re del mondo e spiegherà nel 1992 in Tecnica mista su tappeto, libro intervista con Franco Pulcini, quello che per lui era il significato di quel concetto. L’aveva preso, diceva, dall’omonimo libro di René Guénon. Si può anche avere in antipatia lo scrittore francese e quel libro in particolare, ma un punto è chiaro e certo: il re del mondo non è da confondersi col princeps huius mundi, ossia il demonio: è infatti, per semplificare, il contrario. Battiato, nella sua canzone, ribalta tutto convinto che il re del mondo sia proprio un essere negativo e demoniaco: «ci tiene prigioniero il cuore». Non aveva capito un fischio.

Un giorno gli parlai di Etty Hillesum, della quale non aveva mai sentito parlare. Mi chiese se fosse «latina», perché il nome finiva in -um. Nel 2007 uscì per Adelphi un piccolo gioiello, Diventare Dio attribuito da Marco Vannini a uno Pseudo-Meister Eckhart perché di fatto il testo è bensì anonimo ma pienamente parte della mistica speculativa cristiana il cui campione è Meister Eckhart. Domandai a Battiato se l’avesse letto, lui che diceva di essere sempre aggiornatissimo su tutto. Mi rispose confuso, letteralmente: «No. Quello “pseudo” mi ha mandato fuori. Non capisco».

Quando fu pubblicato Io chi sono?, un libro intervista con Daniele Bossari che sembrava estratto da una chiacchierata al bar davanti a un bicchiere di troppo, scrissi deluso una recensione molto critica e in privato gli dissi però tutto ciò che pensavo ossia quanto fosse inaccettabile che uno propenso a riempirsi la bocca di India, islam, mistica, tibetani e via elencando potesse prestarsi al confezionamento di quel cumulo di banalità imbarazzanti persino per un neofita o un balbettante new age. Si infastidì e mi prese per i fondelli. Di fatto era uno che non sopportava le critiche dirette. Quanto alle pochissime che ogni tanto qualcuno più avveduto gli rivolgeva, non se ne curava. Tanto lui era Battiato.

Anche qui, l’elenco potrebbe continuare ed entrando nei dettagli diciamo tecnici di alcune correnti spirituali non si finirebbe più.

Battiato fu senza dubbio un grandissimo musicista, anzi il massimo cantautore italiano di sempre anche se avrebbe fatto meglio a seguire il consiglio che gli diede Stockhausen negli anni Settanta, ossia a quarant’anni smettere di scrivere canzoni e dedicarsi alla musica seria. Qualche ammaccatura la riporta, forse più di qualcuna, soprattutto negli ultimi anni, quando la senilità lo indusse a perdere la trebisonda e reinventarsi regista con risultati incresciosi e scrivere canzonacce come Inneres Auge: sfotte indignato «primari» e «servitori dello Stato», i famosi «rincoglioniti», ma intende premier e in generale politici. Nessuno gli ha spiegato che i primari stanno negli ospedali e i servitori dello Stato, espressione che per il solito si adopera per un Falcone o un Borsellino, non vanno a mignotte?

Ed è questo un altro punto. Ascoltatelo parlare, leggete quelle pochissime pagine che ha disseminato qua e là (l’introduzione al Catechismo buddhista della Bompiani, tante per dirne una), rileggetevi per bene i testi di certe canzoni e poi ditemi dove trovate il coraggio di parlarne ancora come un grande intellettuale. Famose, per così dire, sono certe sue interviste in cui risponde a monosillabi e tutti a credere che si tratti del suo distacco, della sua aristocrazia e invece è soltanto afasia, incapacità di spiccicare una parola su quell’argomento, la stessa che riscontravo quasi sempre quando in privato gli ponevo certe domande. Era evidente che non sapesse cosa dire.

Se poi uno pensa alle sue scelte politiche, c’è da dubitare seriamente sulla sua lucidità. Quando fu nominato assessore alle “varie ed eventuali” della giunta Crocetta glielo dissi chiaramente: fallirai, non sei un politico, non sei capace di reggere quell’ambiente, ti masticheranno e ti sputeranno fuori. Si fece una grassa risata. Sappiamo tutti poi com’è andata. La stampa e la politica reagirono senz’altro male, in maniera balorda e anche gaglioffa a una frase che però, per i nostri tempi, era stata detta male e nel posto sbagliato. Ancora in parentesi: pochissimo tempo prima, già assessore aveva espresso questo garbato pensiero: «La destra italiana non appartiene agli esseri umani», ma la stampa progressista, e anche certi destri che sbavavano per lui, finsero di non accorgersene e ci facevano conferenze insieme. Altro che troie in parlamento: erano dappertutto.

Lo sentii un paio di volte in una trasmissione televisiva a parlar di politica: una volta sulle primarie del Pd, un’altra su chissà quale altro fondamentale tema nazionale. Poi da Santoro. Di quel che diceva si capiva poco, quel che si capiva si avrebbe voluto non capirlo. Lo dico a rafforzamento della mia impressione e non per pararmi il sedere: persino Veneziani, che a Battiato voleva più che bene, si sentì in dovere di scrivere un articolo in cui metteva in dubbio la saldezza mentale del maestro.

E qui siamo ormai entrati in un terreno delicato. Perché, se volete saperla tutta, ho tanto l’impressione che la sua misteriosa malattia – su cui ancora si attendono chiarimenti, che non arriveranno mai – sia iniziata almeno dal 2010 circa, ossia diversi anni prima del suo improvviso e silenzioso ritiro dalle scene dopo la seconda caduta, quella in casa (la prima fu durante un concerto a Bari). Una volta feci ascoltare una sua intervista a una mia amica psicologa, che di Battiato se ne fregava e quindi non era condizionata da nessun tipo di pregiudizio. Mi guardò perplessa: «Quest’uomo ha problemi cognitivi». Non sfotteva, dava solo un parere tecnico, peraltro non necessario vista la patente e deprimente realtà.

Poco tempo dopo arrivò la catastrofe autentica, che fu negata e stranegata da quasi tutti. Come se poi una malattia, quale che sia, fosse un’onta. Si sarebbe preferita, noi ammiratori, una dichiarazione ufficiale e la richiesta di un rispettoso silenzio stampa, che peraltro avrebbe evitato il rincorrersi di voci e polemiche. E si sarebbe, assai prima, preferita la prudenza da parte di chi lo circondava. Seguitò per anni ad andare in giro fino a quando non era più in grado di dare un’immagine decorosa di sé. E tutti, almeno ufficialmente, fingevano di non accorgersene. O era messi male più di lui. Se si fosse ritirato con uno di quei suoi meravigliosi inchini ai concerti, si sarebbe evitato (gli avrebbero evitato) per anni uscite imbarazzanti per tutti e ovviamente per lui per primo.

Non sono nemmeno mancate menzogne smaccate e tentativi, riusciti fino a poco tempo fa, di «tenere in vita qualcosa che è già morto», frase forse un po’ scomposta pronunciata da Roberto Ferri, che però esasperato e che diceva la verità e che per primo e unico aveva parzialmente squarciato il velo sul mistero della malattia, sentendosi dare del bugiardo o del matto. E su questo punto mi fermo qui perché non ho i soldi per pagarmi un avvocato. Le cause morali non si vincono in tribunale.

Ma se è vero tutto ciò che ho detto, perché allora tutta questa idolatria? E non mi riferisco a quella falsa degli ultimi giorni ma di sempre. Basta il suo genio musicale eccezionale a spiegare il delirio e la supina devozione di alcuni? Non credo, c’è dell’altro. Gli è che ascoltare Battiato dà l’impressione di essere più intelligenti, più intellettuali, più “spirituali”, o almeno distanti dalla vita prosaica. Si vive di luce riflessa, posto che quella sia luce. Aveva ragione Claudio Chianura (in Enzo Di Mauro, Fenomenologia di Battiato) quando scrisse che «se Battiato dicesse che Bach era un coglione, le persone che lo amano e lo seguono e anche parecchi giornalisti non avrebbero difficoltà a pigliare sul serio l’affermazione. Allo stesso modo, se egli decidesse di andare ad Avignone a farsi antipapa, lo seguirebbero». Vero, verissimo perché, Bach a parte, ero anch’io parte di quelli. Loro sì dei coglioni.

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Caro Luca,

sei stato tu ad avvisarmi, per primo, della morte di Battiato. Erano le 8.04 del 18 maggio scorso, “Ci conoscemmo una ventina d’anni fa e fummo in ottimi rapporti a lungo. Avrei qualcosa da dire e non tutto positivo”, mi hai scritto. In quell’istante si è sbriciolata, tutta insieme, in un volo di gazze, la mia infanzia: chi non è stato trafitto, almeno una volta, da una canzone di Battiato? Non sopporto i ‘coccodrilli’ – cavalcati dal qualunquismo degli aggettivi eccessivi –, i piagnistei sul corpo del morto e chi santifica i cadaveri, lustrati da un frastuono di sorrisi. Ti ho dato il via libera per l’articolo, che pubblico solo ora. Che scoperta: il pezzo è bello, vivace, cinico, brillante, controcorrente. Non mi convince la sua natura di fondo, per questo ti rispondo, in pubblico, facendo dei lettori, dunque, i giudici della nostra fittizia disfida.

Te la dico così: rimproveri a Battiato una sfilza di piccolezze – legate al vostro particolare rapporto – che mi paiono delle minchiate, per dirla alla siciliana, rispetto all’opera di Battiato. Che Battiato non abbia voluto leggere il Beethoven di Buscaroli e che non conoscesse Etty Hillesum mi sembrano difetti eccezionali, infine irrisori se sei quello che ha pubblicato La voce del padrone e Come un cammello in una grondaia. Se gli hai prestato un ciddì e non te l’ha restituito, Battiato resta un maleducato, ma… chissenefrega; il fatto che fosse antipatico, borioso, politicamente spericolato, devo dire che me lo rende più simpatico. In genere, confondere la statura artistica con quella morale è il difetto della cosiddetta ‘cancel culture’, che denigra un gigante perché era un bastardo. Non mi piace quando i piani si confondono, pretendo il privilegio della forma, voglio difendere l’aristocrazia dell’arte. Siamo uomini, abitiamo l’imperfezione, intrisi di stronzaggine: quando morirò, i rari restanti diranno di me cose tanto orrende che a confronto le mancanze imputate a Battiato paiono quelle di un santo. Che un cretino, come dici tu, abbia saputo scrivere Lode all’Inviolato e La stagione dell’amore dona al miracolo uno splendore più autentico. Se vogliamo dissezionare, spappolare, dissennare l’opera, invece, avanti!, l’opera è lì per quello, non attende accoliti né un tendaggio di assoluzioni, ma la nostra ferocia (ricordi Tommaso Labranca?, secondo me di Battiato non ha capito nulla, ma la sua critica è efficace, livida, bella).

Non sono un fan di Battiato, qualsiasi esibito fanatismo, anzi, mi spaventa; Battiato non era un guru, non era un mistico né un maestro spirituale, altrimenti avrebbe percorso la via del silenzio e del ritiro, non quella del palco e della fama. Non so se sia stato “il massimo cantautore italiano di sempre”, come scrivi tu (il tuo, ecco, mi sembra l’articolo di un amante tradito); di certo è stato un supremo interprete della canzone, un innovatore, perfino un genio, se c’è ancora spazio, in questa palude, per un termine tanto desueto quanto abusato. Battiato è stato un grande uomo di spettacolo, ha giocato a rompere i cliché della ‘spettacolarità’: l’uomo sul palco è lì perché gli altri lo fraintendano, lo ammazzino. L’uomo di spettacolo non è; è ciò che vuoi che sia. Per questo, esiste un Battiato per chiunque ascolta Battiato: da Fetus a Apriti sesamo esistono, credo, un migliaio di Battiato, qualche miliardo, forse, non tutti piacevoli. Battiato ha giocato fino in fondo l’ambiguità, ha evaso la cultura, era più dada che sufi: ha fatto benissimo! È stato un tramite, mica un termine; e se ha alimentato il proprio mito – costruito artatamente dai fan, da chi lo ha intervistato, leccato, laccato – ha fatto benissimo! Un uomo di spettacolo piglia per il culo e si prende per il culo, è tanto famoso perché simula di fuggire la fama, schiavo del mondo nell’atto esatto in cui si esilia dal mondano, e noi siamo qui, allocchi, a non saper distinguere tra atto scenico o mistico, tra colpo di teatro o colpo di testa, tra omissioni e ammissioni, tra scelta spirituale o affettazione snob. Sono gli altri a vedere in un gesto naturale come fare l’amore in un parco, un atto osceno in luogo pubblico; la vergogna è negli occhi di chi guarda, non di chi fa. Che colpa ne ha Battiato se gli altri – compresi noi, Luca – si sono costruiti il proprio “Battiato”?

Aggiungo un paio di cose al tuo discorso, che mi paiono importanti. Battiato ha creato una “comunità”; ed è bello, raro, condividere la maestria, sapersi sedere al cospetto di un maestro. A parte Manlio Sgalambro, Battiato ha lavorato con Fleur Jeaggy, con Juri Camisasca, con il professor Angelo Artioli; con Giusto Pio e Saro Cosentino ed Henri Thomasson; ha prodotto Giuni Russi e cantato con Alice; ha collaborato con Morgan e con Carmen Consoli e con Antony… Ha costruito un cenacolo. Ci vuole talento nello spartire la propria aura con altri. E poi, è andato alla ricerca di maestri, con una avidità, un senso della sorpresa, una fame ingenua, che mi stupisce. Ha dialogato con Raimon Panikkar, Gabriele Mandel, Alejandro Jodorowsky, Guidalberto Bormolini… Certo, anche io preferisco leggermi il Bardo Thodol tradotto da Ugo Leonzio più che sorbirmi Attraversando il bardo di Battiato, d’altra parte soltanto un cretino – in questo caso, autentico – si fa spiegare Gurdjieff da un cantautore. Non basta ascoltare La buona novella di De André – tra l’altro, insopportabile, a dire di alcuni – per dire di conoscere i Vangeli apocrifi, né aver letto Le memorie di Adriano per pensare di sapere qualcosa sull’epoca imperiale romana. Gli artisti si muovono in un altro piano, formale, ed è su quello che devono essere setacciati e sorpresi. Poi, per dire, io, che sono un cretino totale, mi illumino quando leggo la lista dei libri pubblicati da L’Ottava, la casa editrice di Battiato, dal fatidico Gurdjieff a Natsume Soseki, dall’esoterista Isha Schwaller de Lubicz, al mistico musulmano Abd al-Qadir al-Gilani. Tutta forma, tutto spettacolo, tanto Battiato non leggeva nulla di ciò che pubblicava? Mi verrebbe da dire, ancora, ma cosa importa… Creare uno spazio perché qualcosa di grande accada non è di per sé un grande gesto? Sì, non mi piace dissezionare con il taglierino le vite altrui, preferisco fronteggiare la vita con la spada sguainata, oppure indifeso, ma non inerte.

Beh, ora caro Luca possiamo partire insieme verso Tozeur: chissà se c’è la stazione dei treni; pare ci sia una forte confraternita sufi, dal lago salato emergono formidabili morgane. Battiato ha cantato I treni di Tozeur insieme ad Alice all’Eurovision Song Contest del 1984 (mo’ mi verrai a dire che i Måneskin sono più bravi, belli e buoni di Battiato…). Vinsero gli Herreys, un gruppo svedese composto da tre fratelli mormoni: chi se lo ricorda? Piuttosto, continueremo a mormorare Battiato, non per sentirci più intelligenti – insipienti siamo tutti, tutti siamo polvere – ma per scoprirci leggeri, svegli, a inseguire sciacalli di luce, per fortuna.

Davide Brullo