Alessandra Coppola
Alex Majoli è talento puro. Alto, grande, coi capelli lunghi biondi legati sulla nuca e mai tagliati per una misteriosa promessa fatta secoli fa a un amico. Le occhiaie perenni e gli anelli con le pietre che chissà da dove vengono; cinquant’anni compiuti ad aprile e ancora un candore da ragazzino di strada.
Le macchine fotografiche in braccio a lui sembrano piccole e leggere, gli ciondolano come collane. Quando le afferra è perché ha «sentito» un’immagine e sta andando a prenderla, con un flash che punta (o fa puntare da un assistente) preciso come un riflettore. Quel che ha imparato al termine di tanta esperienza, spiega a «la Lettura», quasi trent’anni di scatti, è che anche la cronaca più impensabile, persino il dolore, forse soprattutto il dolore, nell’istante in cui si stampa sulla retina (che sia pellicola o digitale) si trasforma in una messa in scena. Con i protagonisti che — consci o meno — stanno prendendo parte alla recita della propria stessa esistenza.
In un precedente lavoro ha tradotto questa intuizione in Scene, dove il taglio personale di luce metteva già in evidenza che dall’America all’Asia all’Europa «siamo tutti attori — postfazione di David Campany — alle prese con i diversi ruoli che la storia e le circostanze ci impongono». È la stessa presenza del fotografo, per quanto voglia farsi da parte, accostarsi al muro, che porta fatalmente un occhio esterno e «crea» lo spettacolo.
L’evoluzione di quel progetto è adesso Opera aperta, «a step forward», dice Alex: un passo oltre, indispensabile anche in tempo di Covid a un artista che non può stare fermo. «Mai tornare indietro: rilancio — ripete — come in una partita a poker». L’accento romagnolo nel tempo si è mescolato all’inglese per aver tanto viaggiato, perdendo e trovando casa in giro per il mondo, dall’infanzia a Ravenna alla Sicilia di adozione, attraverso i Territori palestinesi, il Congo, le favelas del Brasile, la guerra in Iraq, i profughi siriani, e poi ancora gli Stati Uniti, un backstage di moda, il set di un film, il ritratto di Joe Biden (allora vicepresidente di Obama). Infine, dove tutto si tiene: il palco di un teatro. Sempre, come dice lui, «al momento giusto nel posto sbagliato». Perché ritrovarsi a scattare tra attori, scenografi e costumisti, quando la pandemia ferma ogni attività artistica, diventa un altro dei suoi «posti sbagliati» generatori di magia.
Così è andata: la Fondazione «I Teatri» di Reggio Emilia lo ha chiamato a lavorare due anni fa a un progetto condiviso e gli ha lasciato «carta bianca» (Alex ne ringrazia per questo apertamente il direttore Paolo Cantù). Mentre ancora il fotografo prendeva le misure con il contesto e «con il cliente», come dice lui, per capire fino a che punto potersi spingere, è arrivata la pandemia «e non potevamo far finta di nulla». Majoli — che dal 2001 è parte integrante della maggiore agenzia fotografica mondiale, la Magnum, e ne è stato anche presidente — si rimette in viaggio, per lo più in Italia, tra reparti di terapia intensiva, strade vuote, parenti in attesa, cimiteri spogli, fatica collettiva a respirare (una selezione dei sui scatti si è vista a Cortona on the move: Covid on scene, nonché nell’edizione americana di «Vanity Fair»). Comincia a ragionare su come tenere quel che gli sta accadendo intorno, che tutti hanno davanti agli occhi, assieme al lavoro che gli è stato assegnato a Reggio Emilia. Scambia appunti e suggestioni con Cantù. Rilegge le annotazioni di Antonin Artaud su Il teatro e la peste, 1933 («Come la peste il teatro è dunque un formidabile appello a forze che riportano lo spirito alla fonte dei suoi conflitti… La peste è rivelazione… L’uomo inventa personaggi ai quali senza la peste non avrebbe mai pensato…»). «Di solito un fotografo è a Gaza, per dire, e la gente dal divano guarda in televisione quello che sta succedendo — ragiona Majoli — mentre questa volta lo sapete tutti che cosa è in corso»: per una volta è come se ci fossimo anche noi con lui a Gaza. «Allora proviamo a spingerci più in là».
Gli torna in mente un’esperienza teatrale che l’ha segnato: il regista Romeo Castellucci che porta in scena la morte di Carlo Giuliani al G8 di Genova del 2001, e stende il proprio figlio, Demetrio Castellucci, sulla macchia di sangue lasciata da Carlo — la stessa che Alex ha fotografato sull’asfalto vent’anni fa —; quindi un tenore vestito da carabiniere, dopo aver sparato, intona un canto funebre. Un corto circuito tra finzione e realtà dove l’emozione più forte viene dalla performance e non dall’originale. Ecco allora che comincia a prendere forma Opera aperta.
Atto I. Alex è al cimitero di Reggio Emilia, osserva un uomo anziano lavorare a una tomba con uno scalpello. Lo fotografa. Invia allo stesso tempo un messaggio a Mirco, attore e musicista, e lo fa entrare con naturalezza in scena. L’artista improvvisa, si mette a parlare con lo scultore. Nell’immagine successiva c’è anche lui, seduto sulla pietra, a contemplare la scritta nel marmo come se fosse parte della propria storia. Una donna passa lo straccio davanti alla vetrina rotta di un supermercato, un attore s’affaccia, osserva il pavimento. Piccoli episodi della cronaca minima di Reggio e dintorni in tempi di pandemia, fino all’ultima scena: una donna ricoverata per Covid, in vestaglia, all’ospedale di Caltagirone, Sicilia, circondata da medici e infermieri mascherati dalle tute protettive.
Atto II. L’attrice Cristina Cattellani entra nella fotografia con la tecnica del collage, soffre, si spaventa, si dispera. Che cosa ci fa questa donna senza mascherina, vestita sempre uguale, tra preti benedicenti, lavori in corso, ignari passanti? «Significa quello che credi, è lo spettatore a dovergli dare il senso», risponde Alex. E intanto, raccoglie i decreti del Consiglio dei ministri che tengono chiuso il teatro — come una piccola collezione di documenti — assieme ai frammenti di una prova del Barbiere di Siviglia, e le intitola provocatoriamente come il terzo atto dell’opera di Rossini: L’inutile precauzione. Le uniche immagini in catalogo a colori, tra mascherine, guanti, fazzoletti di carta e disinfettanti.
Atto III. La spallata finale, potentissima: la scena della donna sul letto di Caltagirone viene reinterpretata in pigiama e in costume dagli attori di Reggio Emilia, con l’aiuto dell’ospedale locale che — in un momento di minore emergenza — presta una sala come set. Chi è il malato? La donna con l’abito di tulle? L’uomo con uno strampalato caftano ricamato d’oro? L’anziano in una redingote fuori dal tempo? Da dove vengono? E come hanno contratto il Covid? Oppure, eccola: è la Peste? «Opera aperta è una citazione da Umberto Eco — risponde Majoli — siete voi che guardate a dare il significato». (Per orientarsi leggere le didascalie: «Su quelle non si mente mai»).
Se pensate sia troppo, tutto assieme, è Alex ad essere «troppo». Tanta vita, tanta emozione, tanto dispendio di energie, sentimenti, sensibilità. Gli assistenti che gli stanno dietro a fatica. Dalle prime immagini di gioventù nell’isola dei matti, Leros; il bambino africano mutilato che tiene con la bocca la bottiglia di latte; le pareti scheggiate delle guerre, o anche semplicemente due ragazzi napoletani colti nel traffico sul motorino. Le foto personali ugualmente struggenti di una compagna sul divano di casa, della figlia maggiore scottata dal sole, della madre che sta morendo, raccolte qualche anno fa in una mostra personale a Ravenna e, in parte, nel volume Andante (2018).
«Direi che questa è l’opera della maturità — osserva Walter Guadagnini, co-direttore del Festival della Fotografia europea, presentando Opera aperta a Reggio Emilia assieme a Cantù. Non solo: «Questa oggi è la fotografia che riesce e dire meglio il mondo. Perché il trucco ti costringe a fermarti di più e a porti delle domande».
«È esattamente quello che ho cercato di fare — replica Alex —: è vero o falso?». E siamo certi che quando osserviamo un’immagine vera non ci stiamo comunque ingannando? La schiera degli uomini serissimi abbigliati come massoni dietro a un bancone: vera, ma è la Confraternita della Zucca, non una Loggia segreta. Due persone di spalle si abbracciano, sembrano indossare parrucche identiche: «E invece è un’immagine verissima — commenta Majoli — due ragazze al parcheggio Zucchi». E il vigile urbano che guarda il maiale non pare messo lì apposta?
Tutto avvolto da questo nero profondissimo che mangia la luce, spinto ancora una volta all’estremo. Se ce ne fosse bisogno, anche l’assenza di colore sta a sottolineare che non c’è in Majoli desiderio di esibizione, messa in mostra, ricerca dell’effetto come in tanta fotografia contemporanea. Ma c’è un’urgenza dolorosa di capire, di esprimersi, di essere compreso. Di andare all’essenza, per ritrovarsi assieme con le stesse domande cruciali. Ancora una citazione di Alex Majoli, lo spettatore di Sant’Agostino che «soffre, rimane attento e godendo piange».
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