“Fui quella rosa canina senza fortuna
che nessuno un giorno avrebbe pensato fiore.
Sono cresciuto, ma ho conservato la terra
le cui dure zolle butto in faccia ai borghesi”.
Armand Robin avrebbe forse preferito l’assenza alla presenza – foss’anche la presenza in queste manchevoli righe; l’oblio evocativo al didascalico omaggio, la spossessione al tentativo di possesso commemorativo. Il poeta infatti arriva presto all’idea di abbandonare la poesia attraverso la traduzione per donare alla stessa poesia un contributo ancora più radicale, al di là della scatola del proprio io. In questo senso egli si sente “eliminato dalla sua stessa poesia, suicida canto per canto”:
“A costo di perdere ciò che rende la mia vita davvero viva, voglio perdermi affinché delle poesie straniere diventino delle poesie assolute, e che su di me non vi siano che i raggi tremanti di un sole al tramonto”.
Ordunque dovremmo forse ricordare Armand Robin solo col silenzio evocativo o – magari –soltanto riportando integralmente qualche scorcio delle sue opere. Tuttavia, come a tutti quelli che scrivono solo per scrivere, anche a noi piace il tradimento che ogni arte segretamente sottende – e così, solo rinnegandolo in una immaginaria ri-creazione, saremo forse suoi umili sodali, iniziati inadeguati del suo incorrotto verbo. Ciononostante non ci spingeremo sino a tratteggiare per filo e per segno la sua biografia giacché – almeno in questo vorremmo rispettarlo – per il poeta francese “qualunque biografia è distruttiva, sovversiva” e “ripercorrere al contrario la strada conquistata da ogni uomo nella sua vita passo dopo passo”, “è un genere letterario che va lasciato alla polizia” – e noi non siamo poliziotti. D’altra parte, lo stesso autore pubblica un testo quantomeno bizzarro sulla sua vita – L’uomo senza notizia – per dimostrare che tutte le voci circolate su di lui sono false e per ammetterle, invero, sottobanco – senza mai assentire a esse – come se, appunto, egli stesso non credesse a un solo de-terminato se stesso, come se non volesse cadere in un “flagrante reato di presenza”, come se non confidasse in un sé raccontato dagli altri, quasi fosse vacante a sé, estraneo alla sua persona, uno con la parola. Eppure, qualcosa su di lui dovremmo pur dirla. Dovremmo pur ricordare che Armand Robin nasce nella Bassa Bretagna nel 1912, in una famiglia di poveri contadini e che prima delle elementari sa parlare solo il dialetto fissel. Dovremmo magari ricordare che, dopo aver svolto gli studi a Parigi, inizia a dedicarsi da autodidatta alle lingue imparandone perfettamente una ventina e diventando in breve tempo traduttore oltre che poeta – e anche scrittore visto che pubblicherà nel 1942 il romanzo lirico Le Temps qu’il Fait. E non potremmo certo scordare che nel 1933, dopo aver attraversato il confine polacco, si stabilisce per qualche tempo in un kolchoz russo lavorando con i contadini, reietto tra i reietti, sotto Stalin. Non potremmo dimenticarlo perché questa esperienza, che gli dà modo di toccare con mano la ferocia della dittatura, è uno spartiacque, l’inizio del suo allontanamento dai comunisti e, come accade in Simone Weil, l’aurora della sua radicale ribellione al totalitarismo. Non potremmo, d’altronde, dimenticare che durante la guerra il nostro, già amico di Drieu La Rochelle, lavorerà presso il Ministero dell’Informazione del governo di Vichy in qualità di collaboratore tecnico col compito di ascoltare quotidianamente le radio straniere per stilare dei “bollettini d’ascolto”. Non potremmo dimenticarlo poiché, nonostante talvolta egli passi questi resoconti anche al Servizio d’Informazione Clandestinoe ai giornali della resistenza, Aragon e compagni non glielo perdoneranno inserendo il suo nome nella Lista nera dei collaborazionisti – in una di quelle liste, cioè, che a tanti, come a Robert Brasillach, costeranno la vita. Ma Robin – che indipendente lo fu sempre – nelle sue lettere indesiderabili e altrove provoca pericolosamente i nazisti francesi, i comunisti e gli stessi governanti e intellettuali occidentali accusandoli principalmente dello stesso reato: l’uccisione interiore di milioni di uomini, la loro decapitazione mentale, desensibilizzazione, cadaverizzazione. Cos’altro dovremmo dire per presentare velocemente Armand Robin? Beh, che dopo la guerra si avvicinerà alla Federazione anarchica; che collaborerà con varie riviste sia politiche che letterarie; che continuerà ad ascoltare e a tradurre le trasmissioni delle radio straniere; che nelle sue geniali traduzioni amerà morire di fatica per trovare la dimensione del Verbo che oltrepassa l’io; che calcherà le strade d’Europa con la sua motocicletta “brillante come il veleno”; che morirà infine nel 1961 pieno di debiti dopo un misterioso alterco in un bar, vale a dire dopo essere stato portato nell’infermeria di una prigione; che i suoi beni andranno al macero pubblico e che si salveranno solo tre valige di manoscritti. Ecco forse questo può bastare prima di rimandare il lettore allapuntuale biografia contenuta nel libro, pubblicato da Giometti&Antonello nel 2019, L’indesiderabile. Il volume, che raccoglie vari saggi di Robin, è curato e tradotto da Antonio Malinvero – le traduzioni delle tre lettere indesiderabili è invece di Andrea Chersi.
Ora che con queste scarne notizie la nostra pseudo-opera poliziesca è compiuta, non ci resta che circoscrivere ancora il recinto dei tradimenti concentrandoci sul saggio del 1953, inserito nella raccolta citata e intitolato La falsa parola. La scrittura di Robin è suggestiva, al contempo chiara, mattinale e oscura, crepuscolare. Si esperisce a livello quasi epidermico che Armand è un poeta, si sente che le parole non si accontentano della consequenzialità logica, che sono semplici ma arcane, si vive il verbo con Armand Robin. Già la prima frase della raccolta appare quantomeno bizzarra: “il leone mise il suo burnus ad asciugare nel fiume”. Ora, questa proposizione apparentemente insensata è contrapposta a una serie di slogan della propaganda che nella loro assurdità fondano una sorta di oltre-linguaggio e una meta-realtà in cui la distinzione tra verità e menzogna è trascesa – sì, perché nell’irrealtà non c’è la possibilità di distinguere il vero dal falso. La prima frase tratta dall’arabo aveva solo il fine di “far applicare su un piccolo numero di precise parole alcune formule di quell’algebra che è la lingua araba”. Per questo appare sensata e grammaticalmente centrata. Invece la frase “Tito è un agente del Vaticano”, trasmessa dalla radio di Mosca in un servizio di lingua ceca nel 1951, manca di buonsenso perché premette implicitamente qualcosa di indimostrato, ossia che tutto ciò che è americano (cioè non sovietico) è negativo e che, siccome Tito e il Papa sono contro i sovietici, allora sono a favore degli americani e sono tra loro conniventi. Allo stesso modo gli stalinisti accusano – insensatamente – i trotskisti di essere nazisti. Il buonsenso della grammatica, insomma, è immensamente superiore alla mancanza di buonsenso della propaganda. Ma Robin è ancora più radicale quando scrive:
“Nel caso dello spirito totalitario, ovvero (detto semplicemente) nel caso della follia, il contrario assorbe il suo contrario, così che il principio di identità è metafisicamente pervertito”.
Pertanto, mentre il tiranno attende di eliminare il corpo del nemico, con la propaganda uccide la sua mente annichilendolo verbalmente:
“(…) Il limite dell’assurdo deve venire costantemente infranto, e l’assurdo reso perfetto, in modo da scoraggiare lo Spirito e lo strumento dello Spirito: il Verbo”.
Niente, chiosa il poeta, deve significare niente. Cioè, siccome nulla ha senso, tutto ha senso – echeggia l’analisi di Orwell secondo cui la propaganda sovverte completamente il senso delle parole – “la guerra è pace”, “la libertà è schiavitù”, “l’ignoranza è forza” – e affiora l’idea ripresa anche da Arendt e Weil secondo cui l’ideologia che si veste di propaganda è, ancora prima del terrore, la cifra del totalitarismo perché uccide l’uomo preliminarmente – cioè prima che il suo corpo muoia. Il burocrate propagandista si fa “strumento di vaniloquio”, è un ingranaggio automatico, uno schiavo agito da “potenze metafisiche”. Per Robin se il potere violenta il linguaggio, se la grammatica e la logica vengono corrotte, se frana il nesso tra il segno e la cosa, la stessa sfera della verità si sgretola. Se il linguaggio si svuota, si svuota l’uomo, insieme a tutto il suo mondo: la realtà è cancellata, il deserto – e sono per gli uomini guai! – avanza. In questi casi i fatti sono indescrivibili e non resta che attaccarsi – passeggeri di un bolide che viaggia verso il vuoto – alle maniglie che ne sanciscono l’inevitabile precipitare. Il “biblico sterminio del linguaggio” che inaugura campi di concentramento linguistici e che riduce l’uomo a cosa, produce l’ananghelia: il linguaggio non comunica più nulla, non c’è più alcun annunziatore del Verbo. Il linguaggio è d’altronde, come per Heidegger, la casa dell’essere e il poeta parla anche nel silenzio della traduzione, nella attesa che porta a compimento qualcosa che sconfessa il mero chiacchierare tacendo il “si dice”, ripudiando la deiezione. Quella di Robin è una parola che ri-vela. Il livello è questo, rammemorante o, ancora meglio, per citare Walter Benjamin, immemorante – la parola rievoca l’atemporale, l’originario, ciò che per eccellenza, nel suo darsi sottrattivo, precede il segno. Pertanto, se il linguaggio è in ogni caso il piano all’interno del quale l’uomo è, la degenerazione dello stesso ingenera la modifica dell’essenza umana. E se ancora Heidegger asseriva che l’essenza della tecnica non è nulla di tecnico, il linguaggio – che nel meccanismo della propaganda è eminentemente tecnico – è ciò di cui ne va della nostra stessa essenza. Chi cerca di accedere all’esistenza nel linguaggio della propaganda non pensa, è il pensato altrui, il progetto altrui, vale a dire non è. E quando ci si riferisce alla possibilità del pensiero non si allude al pensiero calcolante che sottomette la natura riducendo a macchine gli uragani, non è il pensiero della matematica quello al quale ci si riferisce, non si tratta di una operazione, non si tratta di un procedere da quantità a quantità, da specchio a specchio. È invece il pensiero che dispone nel linguaggio l’uomo al suo stesso senso; è, in breve, il dire come atto dello Spirito, è la stessa, concreta opera della libertà, è la libertà in opera. La libertà che il linguaggio fonda è anche la possibilità di affermare, perfino di gridare, che le cose non stanno così, che non ci si sente così, che non si assente così, che non si assente affatto! Altrimenti – se tutti funzioniamo come stupidi automi – che ne dovrebbe essere dell’uomo?
Al posto delle parole uccise dalla propaganda ci sono “cadaveri assurdi, segni invertiti, parodia”. E l’uomo è costretto alla robotica ripetizione degli stessi banali lemmi – “tu ormai sei soltanto la ripetizione permanente di tutte le tue parole uccise”, scrive il poeta. È una guerra al cervello, la guerra del secolo – del Ventesimo, certo, e ahinoi, pure del Ventunesimo! E dunque è questo l’insegnamento – e fate voi quanto possa essere tragicamente attuale – di Robin: il pervertimento del linguaggio consente al potere di eliminare l’uomo mentalmente, di inebetirlo, di renderlo docile, inerte, mansueto, addomesticato, inoffensivo, appunto morto – ormai senza che ci sia quasi più il bisogno di eliminarlo fisicamente. Gli uccelli rapaci della propaganda parlano unicamente mediante l’anti-parola, barattano la sostanza con l’apparenza, la natura con desideri egoistici, combattono infinitamente e in modo assurdamente sterile dentro l’antirealtà, sono esseri psichici che succhiano anime cercando “interi popoli da soggiogare, divorare, saharizzare”. Il linguaggio della propaganda è trascendente e non risparmia neppure chi crede di dominarlo, è uno spirito oggettivato che vive di vita propria, direbbe Georg Simmel. E anche nel caso in cui il linguaggio veicoli una concezione del mondo materialistica (marxismo e capitalismo), non si tratta veramente di materialismo perché l’oggetto di dominio è sempre lo Spirito – e non basta, direbbe ancora Heidegger, ribaltare una proposizione metafisica per uscire dalla metafisica. Il sovvertimento del linguaggio che attiva entità sovrapersonali e che apparentemente esalta tutti i predatori mentali, opera a livello antropologico – è psicofagia, sbranamento del soffio vitale. Le formule ripetute assomigliano a litanie religiose – “magnetismo, ipnotismo, occultismo, fachirismo, feticismo” – atte a edificare un vero e proprio irrazionale mito e la dittatura del non-senso. La desensibilizzazione arriva al punto che le masse – primariamente intellettuali e borghesi – sono indotte a bramare la loro stessa schiavitù mentale – come se fossero affette da una generalizzata sindrome di Stoccolma e fossero “fanaticamente innamorate del loro sparviero predatore”. Nel momento in cui dovessero smettere di essere mangiate, si sentirebbero in pericolo mortale – questo è un dominio luciferino, un “regno metafisico al contrario”.
La “satira metafisica” di Robin, riprendendo forse le esegesi dei francofortesi, precorre le considerazioni di Guy Debord. La società tratteggiata dallo scrittore bretone è infatti organizzata per allestire un irrazionale spettacolo in cui i fruitori, teleguidati a distanza, esperiscono un paradossale senso di piacere. Davanti alla realtà artificialmente assemblata gli spettatori credono di vedere di più, di acquisire informazioni funzionali alla partecipazione democratica, ma le notizie non ci dicono nulla e gli spettatori sono resi immensamente più ciechi, gli occhi sono loro strappati, senza che sopravvenga – esclusi certi rari casi – in soccorso una nuova forma di visione. Non è nel Medioevo che l’uomo con la superstizione ha reso schiavo l’altro uomo: solo oggi è accaduto veramente; solo oggi è successo che degli “assassini psichici a distanza”, mediante l’irrazionalismo del razionalismo, abbiano magicamente ridotto “l’umanità alla alienazione mentale”. In questo scenario apparentemente immodificabile e preordinato all’estinzione dell’umano, si innesta tuttavia un tentativo di salvezza. Infatti nella misura in cui il segno esiste non potrà mai raggiungere il nulla senza entrare nel non-essere – nel suo iperbolico viaggio verso il ni-ente la parola custodisce le tracce di qualcosa che fugge – e che salva. Non tutti d’altronde si piegano, non lo fanno gli “uomini molto semplici” che tendono naturalmente al non-potere, che dicono ciò che pensano e pensano ciò che dicono, che sono “irriducibilmente consustanziali alle proprie parole”, che sono ancora dolorosamente a contatto con le zolle della terra, col dolore, con le cose – e con l’apertura ontologica che nel linguaggio fa essere uomini e cose ciò che sono. Questo significa uscire dallo spettacolo e tornare alla realtà: essere sovrabbondanti di vita, di ali e di cinguettii, se ci si abbandona al fischio degli uccelli; di acqua, se si vuole “avvicinare la prima vera riva”; di sconfinata desolazione, se ci si appresta al deserto; di ombra – per potersi fidare dell’ombra degli alberi. Ci sono inoltre gli scrittori che non devono avere come fine il successo e che hanno come unico compito quello di “creare pensiero ed arte” ad ogni costo:
“La pietra di paragone del vero scrittore è di sentirsi libero comunque, cosa che può facilmente ottenere se evita di far dipendere il suo ruolo di uomo da un ruolo politico”.
Pertanto lo scrittore, affrancato dagli eventi, dalle lusinghe e dall’intrattenimento allestiti dal potere, deve “difendere la civiltà del suo Paese, anche quando tutto sembra perduto”. È una posizione di libertà assoluta perché l’arte di chi scrive è sciolta da ogni condizionamento, trascende tutto e, parimenti, tracciando il mondo, lo mantiene intatto, lo salva. E poi c’è il poeta che vive in una situazione di “solitudine metafisica”, che non baratta mai la sua anima, che sa trovare il rovescio di ogni parola interpretandola nel non-luogo della sua testa. E c’è il poeta che si fa traduttore perdendo se stesso in ogni lingua, pervenendo al non-linguaggio che inizia all’ur-linguaggio, la lingua dello Spirito. Il traduttore mediante i linguaggi diventa ogni uomo, diventa Verbo. Chi decostruisce il potere, chi ne svela i meccanismi, chi sa di essere dominato, chi sa di non avere scampo è sulla strada della salvezza che, come sapeva Hölderlin, cresce sempre e solo dove ci si arrischia. La salvezza è perciò una questione arrischiante, tragica, individuale, è un dire nel deserto, a volte; è un dire contro, un autoelidersi, un parlare ai sordi, un mostrare ai ciechi. È così che i poeti – angeli estremi – talvolta si uccidono, è così che talvolta rinunciano a scrivere, è così che talvolta rimangono nella loro terra sino a morirne, è così che anche senza morire i poeti si spengono, è così che infine, senza essere mai infranti, scrivono. I poeti che pure nel tradurre – in una forma di amorevole abbandono della superfice – dicono di no financo a se stessi, i poeti che ridanno luce alla poesia nella traduzione per essere dimenticati da tutti, che, narcisi senza specchio, amano l’oblio dell’io, i poeti che non sono servi di nessun capotribù, che non danno l’assenso a nulla senza soffrirlo, che non cercano meriti, che sono contenti di una poesia solo se non si può vendere, se sanguina, se non ha prezzo. Robin auscultando le voci degli altri Paesi accoglie brusii da “un regno d’oltre ascolto” e si fa supervisore dell’insensato schiamazzo del mondo – “luogo assoluto di tutti gli scontri, annullo inerte l’universo degli scontri”. In questa infernale bolgia di invenzione disumanizzante Armand Robin ha trovato la strada che tramite il linguaggio conduce all’uomo, la strada della ri-creazione, della rifondazione del dire, pastore della parola, sacerdote del Verbo – oppositore, incorrotto, non classificabile, inscalfibile come un diamante, assoluto, libero, indesiderabile. Ecco un poeta.