Il volto di uno scrittore è la serratura per comprenderne la scrittura: quello di Houellebecq è voluttuosamente brutto, esprime la virtù della ripugnanza. La fama ne ha semplificato i tratti, deformandoli. È un volto ostile e semplice, il suo, e questa ostilità, questa franchezza risuonano nell’opera – efficace, a volte dimenticabile. Nel suo ultimo intervento, pubblicato sulla rivista digitale inglese “UnHerd”, con sede a Londra, Houellebecq raffina la sua ostinata ostilità dicendo un paio di cose buone&giuste. Intanto, che la Francia non fa figli (ma ne fa più dell’Italia). Poi, stigmatizza “l’ossessione tutta francese per il declino… La Francia mi ricorda uno di quei vecchi ipocondriaci che non smettono mai di lamentarsi per la propria salute; il tizio dice costantemente che questa volta ha davvero un piede nella fossa. La gente di solito lo respinge in modo sarcastico, ‘Tranquillo, ci finiremo tutti’”.
Houellebecq commenta la fatidica ‘lettera dei generali’ pubblicata su “Valeurs Actuelles” qualche settimana fa: rivolgendosi a Monsieur le Président, costoro, in anonimato, accusano il governo francese di essere prono a un ipocrita multiculturalismo, di non temere il pericolo portato dall’islam radicale, di disintegrare sistematicamente l’autentica cultura francese. I generali, infine, sguainano il pericolo di una “guerra civile”. Ma una guerra per difendere quale civiltà?
“Il 45% dei francesi che crede nell’imminenza di una guerra civile dimostra che la Francia resta una nazione di millantatori. Bisogna essere in due per fare la guerra. I francesi prenderanno le armi per difendere la loro religione? Non hanno una religione ormai da tempo; in ogni caso, la loro antica religione è quella in cui offri la gola alla ghigliottina. Sarebbe dunque una guerra per difendere la loro cultura, il loro modo di vivere, il loro sistema di valori? Di cosa stiamo esattamente parlando? E supponendo che valga ancora la pena lottare: la nostra ‘civiltà’ ha davvero qualcosa di cui essere orgogliosi?”.
Houellebecq, più politico che profeta, rivolto a un partito, a una ‘parte’ più che alla rivolta – la ‘civiltà’ occidentale è sotto tiro, funestata, scuoiata, da Leopardi in qua; in fondo MH ripete sempre le stesse cose, pare un retore da terra rossa, è infine, almeno alle mie orecchie, consolante, alieno alla spirale dell’urlo, dello sgomento a gomitate –, ne ha anche per gli Stati Uniti, che “sembrano aver eletto l’ottimismo a principio primo della loro esistenza”, eppure, “si deve dubitare della validità di questo atteggiamento”:
“L’America non tarderà a imbarcarsi in una guerra; Come sempre finirà per essere una merda; Sprecherà molti soldi, rinfocolerà il disgusto quasi universale di cui è bersaglio, dando più forza alla posizione della Cina”.
Sbertucciando l’etica dell’accoglienza da attico della gauche francese e di un po’ tutto il pollaio politico, Houellebecq dice un altro paio di cose ragionevoli. Primo:
“L’inevitabile conseguenza di ciò che chiamiamo progresso (a tutti i livelli: economico, politico, scientifico, tecnologico) è l’autodistruzione”.
Secondo:
“In Francia c’è una vaga ma diffusa atmosfera di autoflagellazione – è qualcosa che si libera nell’aria come un gas”.
Queste asserzioni, insieme al gran finale – “L’Europa mi sembra essere a un bivio” – traducono Houellebecq da scrittore ostile in opinionista, perfino scontato, è strano – schiumando il perbenismo della stampa patria – che non firmi sulle colonne del “Corriere della sera”. Dell’intervento di Houellebecq – cauto per la sua esattezza – mi sorprende l’assenza di uno stile predatorio in vece di quello da predica, il muso della faina che insiste nel cadavere europeo. L’uomo nasce perché il morso è la sua alba, l’unità di misura del suo benessere è il rischio, l’avventatezza, una avvenenza nella lotta: ridurlo a numero – entità statale, statuaria, stabilita; stipendio; Pil – lo annienta. Il mutuo soccorso è stato sostituito dalla mutua, la comunità si è arresa al bene pubblico, il rito si è perso tra gli affari da happy hour, la stretta di mano vegeta in colpo di mano, l’abitudine al corpo si è arresa all’abulia telematica, alla palestra sfrenata. Sappiamo tutto da sempre: e dunque? Ogni civiltà ha in sé una natura suicida, splende per corruzione, si esalta sul trono del principio di morte: esiste perché è terminale. Tende al ‘progresso’ al culmine di una ordalia.
Lo storico francese Henri-Irénée Marrou, durante la Seconda guerra, pubblicò un pamphlet di scintillante intelligenza: La fine del mondo non è per domani. In sostanza, Marrou indica nell’apocalittica il carattere dominante dell’uomo. L’uomo attende la fine del mondo con ansia allucinata perché vuole rigenerarsi, anela l’evento eclatante perché vuole risorgere, ritenersi prediletto e ammirare l’ultima rivelazione, nel fuoco. L’attesa, tuttavia, è vana, pedissequa, frustrata: la fine del mondo non ci fiuta, non ci riguarda, il crollo è dovunque e il massacro accade, mai letale, di continuo, pure in un sistema di protezione. Houellebecq annuncia il collasso, con una prosa sfinita, che sfianca, ma il collasso non accade. Piuttosto, l’Europa sembra compattarsi in una sorta di Pleroma, è entità gnostica e intoccabile: chi non vi accede – io, almeno, voi, forse – è suddito, corpo inerte; tra europeo, italiano, immigrato, non c’è più differenza, non c’è mai stata. Nessuno conta, si dà soltanto di conto; che ci si scanni nei bassifondi della periferia, per due soldi: i drammi di ‘dominio pubblico’ sono necessari a infiammare i talk e a costringere la gente al voto, altrimenti, perché non evadere, invadere la zona oscura della propria individualità e installarsi lì, vietando l’ingresso alla politica? Nell’Era Esangue la guerra civile non accade se non in differita, per proclami, dacché lo status quo, l’esistenza vaccinata, offre le vacanze a tutti, qualche motivo per sbraitare, un aperitivo e la partita di calcio.
I concetti di Houllebecq partono da un pensiero/confetto di Pascal, questo: “Ecco quello che vedo e mi turba. Guardo da ogni parte e non vedo che buio”. Il pensiero, il 229 – che qui cito secondo Gennaro Auletta – è molto lungo, raffigura la foresta di ombre che avvolge l’autore.
“Nello stato in cui mi trovo adesso, nell’ignoranza di che cosa sono e di che cosa debbo fare, non conosco né il mio stato né il mio dovere”.
L’inettitudine dell’abisso, però, non è l’ebetudine che ubriaca l’uomo ‘di mondo’, che attende l’apocalisse per dare vita alla propria inesistenza. L’abisso imbambola per eccesso, la storia ci aliena per difetto. A differenza di quello di Houellebecq, il viso di Pascal è levigato da una aristocrazia velenosa, il naso sembra un condor, affidabile a rodere il fegato. Forse Dio, verrebbe da dire, è proprio in quell’ignoranza declinata da Pascal. “Il mio cuore aspira tutt’intero a conoscere dov’è il vero bene, per seguirlo”, così termina il pensiero. Bisogna fare la guerra civile a se stessi e disporsi a essere un fuoco: contro tutti. Parlare di demografia, come di ogni altro concetto astratto, ormai, è fiducia concessa a chi voga nel laido. No: contano solo i volti, l’ardore nei denti, simili a occhi, sconfinare dalle proprie mani, e gettarsi a capofitto. C’è chi difende un roseto, una casa, l’orbita di un falco. Qualsiasi cosa si stringa, è sacra.