Allora, non si trema.

Giorgio Napolitano mette la cintura di sicurezza al governo Renzi. Al Quirinale la foto di chi sale e chi scende in politica


NAPOLITANO

Quando Giorgio Napolitano ha finito di parlare al Salone delle Feste del Quirinale, l’argomento che domina nei commenti tra i politici presenti è uno solo: è stato un discorso di totale copertura al governo Renzi. Se lo dicono tra di loro i renziani, scherzando: “Sembra l’abbia scritto Matteo…”. E c’è chi dà di gomito a Pierluigi Bersani: “Tra le righe si intuiva una certa simpatia…”. Il presidente della Repubblica ha appena pronunciato il suo ultimo discorso di auguri alle alte cariche dello Stato. È il primo dei discorsi dell’addio per un capo dello Stato che a metà gennaio terminerà il suo secondo mandato al Colle, subito dopo il 13 gennaio, data in cui si concluderà ufficialmente il semestre italiano di presidenza europea “con il discorso a Strasburgo del nostro presidente del Consiglio”, dice Napolitano. In 11 pagine fitte di discorso, il presidente costruisce una cintura di sicurezza intorno al governo Renzi, redarguisce chi volesse attentare alla “continuità istituzionale”, dai partiti ai sindacati, esclude il voto anticipato (e questo vale anche per il premier, ma è l’unica stilettata, sottile). Di fronte a lui, nelle prime file, i giovani ministri del governo e i giovani emergenti della politica. Relegati in fondo i vecchi big: da Bersani, a D’Alema a Veltroni ed Enrico Letta (alla cui esperienza di governo Napolitano rende omaggio più volte). E’ la fotografia perfetta del chi è salito e chi è sceso in politica nell’ultimo anno.

Il momento è solenne. Allude all’addio ma non lo esibisce. Come i parenti al capezzale di un caro che se ne sta andando. Il paragone è macabro ma regge se lo si vede in chiave solo politica e istituzionale. La successione a Napolitano è già lì, presente nel clima, oltre che nelle persone di diversi aspiranti successori o personalità comunque chiacchierate per il post-Napolitano. In seconda fila, per dire, c’è Giuliano Amato. E al Salone delle Feste non sfugge il riferimento che Napolitano fa a Piercarlo Padoan, ministro di cui “si riconoscono valore e affidabilità”, dice Napolitano. Non manca chi vi legge un’indicazione implicita sul possibile successore al Quirinale. Di certo, tracciando un bilancio dell’ultimo anno, Napolitano ha voluto anche stendere una griglia di lavoro per l’anno che verrà, anche se lui non sarà più presidente.

E allora da qui la “fiducia sulle potenzialità dell’Italia”, il plauso al governo per gli “interventi accorti e tenaci” per “risolvere le crisi di almeno 40 aziende tra febbraio e novembre” e per “il dinamismo” sulle riforme e anche per la linea scelta da Renzi di abolire il “bicameralismo paritario”. Anzi, sull’argomento, tra i più contestati in Parlamento, Napolitano dedica un intero passaggio: “Padri costituenti tra i maggiori, da Meuccio Ruini a Costantino Mortati e studiosi di generazioni successive ma legatissimi alla Carta del 1948, come Leopoldo Elia, parlarono di un punto debole della Costituzione repubblicana, di fallimento di ogni tentativo di razionale differenziazione tra le due Camere, e quindi di un ingombrante ‘doppione’”.

È questo l’argomento che gli fornisce il la per redarguire chi vuole “mantenere dissensi” sulla riforma costituzionale. Napolitano invita caldamente a “non farlo con spregiudicate tattiche emendative che portino a colpire la coerenza sistematica della riforma”. Perché, dice, “si sono in sostanza messi in moto processi di cambiamento all’interno, e un fenomeno di attenzione fiduciosa all’esterno, che mi hanno registrare con un segno positivo la conclusione del 2014”. Quindi insiste: “Non si attenti in qualsiasi modo alla continuità di questo nuovo corso”.

Lo dice ai sindacati, riconoscendo un “clima sociale” fatto di “malessere diffuso tra milioni di famiglie impoverite…”, ma invitando al “dialogo”. Lo dice ai partiti politici, facendo accenni precisi al dibattito degli ultimi giorni, dalle voci sul voto anticipato a quelle sulla scissione del Pd. “Non possiamo essere ancora il paese attraversato da discussioni che chiamerei ipotetiche: se, quando e come si possa o si voglia puntare su elezioni anticipate, da parte di chi e con quali intenti; o se soffino venti di scissione in questa o quella formazione politica, magari nello stesso partito di maggioranza relativa. E’ solo tempo e inchiostro che si sottrae all’esame dei problemi reali, anche politici, che sono sul tappeto; è solo un confuso, nervoso agitarsi che torna ad evocare, in quanti seguono le vicende dell’Italia, lo spettro dell’instabilità. E il danno può essere grave”.

Forse l’accenno al voto anticipato è l’unica, velata, critica al governo in carica. Ufficialmente Renzi ha sempre escluso ipotesi di ritorno al voto in primavera, ma i suoi spesso giocano su questa prospettiva sugli organi di informazione. Per il resto, Napolitano si avvia a chiudere il mandato confezionando un pacchetto che copre e tutela l’attività dell’esecutivo. Torna a scagliarsi contro l’antipolitica, contestando la “tendenza a scivolare da una critica, anche la più rigorosa, della politica verso una distruttiva anti-politica, che si risolve in patologia destabilizzante ed eversiva”.

Al Salone delle Feste, il procuratore Giuseppe Pignatone, che con l’inchiesta su ‘mafia capitale’ ha scoperchiato Roma, siede in ultima fila. Tanto che il sindaco Ignazio Marino è costretto a raggiungerlo lì, in fondo, per salutarlo, prima dell’ingresso di Napolitano in sala. Magari sarà anche un caso. Ma certo non è casuale la disposizione tra le prime e le seconde file. Ne esce fuori un quadretto molto eloquente sui cambiamenti dell’ultimo anno, su chi è salito e chi è sceso nella classifica dei palazzi che contano.

Nelle prime due file, al cospetto di Napolitano, ci sono i ministri del governo, dalla Boschi alla Madia e gli altri, ci sono i vicepresidenti delle Camere, da Giachetti a Gasparri, gli emergenti del nuovo corso, come Matteo Orfini, in terza fila. I vecchi big – chiamateli ‘rottamati’ o vecchia guardia – finiscono relegati in fondo. Pier Luigi Bersani è in quinta fila. Racconta di aver preso un doppio Voltaren per curare il mal di schiena che domenica scorsa lo ha tenuto lontano dall’assemblea del Pd. Ad una gentile hostess che gli chiede se vuole andare nelle prime file, risponde con un garbato: “No grazie, va bene così”. Enrico Letta è seduto in settima fila, davanti a Walter Veltroni. Massimo D’Alema sta in nona, esattamente quella dove l’anno scorso era seduto Renzi, che allora si presentò da outsider al Quirinale, in appariscente abito grigio chiaro e che ora, premier in impeccabile abito blu, siede di fianco a Napolitano. D’Alema invece siede tra Gianfranco Fini e il leghista Giacomo Stucchi. E subito dopo la cerimonia, se ne va senza partecipare al ricevimento finale nel Salone degli Specchi, quello dove di solito si stringono mani e si scambiano gli auguri di fine anno. Se ne va, proprio come fece Renzi l’anno scorso.