Narratore nel senso pieno del termine, uno dei pochi capaci di usare il cinema come autentica materia romanzesca (penso al Kobayashi di La condizione umana o al Satyajit Ray del Mondo di Apu più che al Truffaut di Antoine Doinel), Edgar Reitz non si è accontentato di raccontare magistralmente le tante facce dell’anima tedesca del Novecento con le tre serie di Heimat (più di cinquanta ore di cinema, che vanno dal primo dopoguerra alla caduta del Muro e alla fine del secolo) ma ha sentito il bisogno di scavare più indietro nel tempo, nella metà dell’Ottocento, per ritrovare le radici della famiglia Simon e dell’idea di Heimat , terra d’origine, patria politica, ma anche luogo dove ci si sente a casa. Sono nate così le quattro ore di L’altra Heimat – Cronaca di un sogno , presentate fuori concorso a Venezia nel 2013 e adesso arrivate anche nei nostri cinema: inizialmente per due giorni — domani e dopo — grazie allo sforzo di Ripley’s Film, Viggo e Nexo Digital, con la speranza che il successo che merita ne allunghi il periodo di proiezione nelle sale. Lontanissimo dal ripetitivo meccanicismo della serialità televisiva, nei primi tre Heimat Reitz era partito dall’«esperienza vissuta» della gente comune per rielaborarla attraverso quel che si era depositato nella memoria collettiva e poi incrociarla con i punti di vista dei nuovi arrivati sulla scena della Storia. Senza preoccuparsi di seguire una qualche linearità narrativa ma alternando salti a dilatazioni temporali, inseguendo piste secondarie che poi abbandonava per seguirne altre. Con L’altra Heimat – Cronaca di un sogno il regista, che firma la sceneggiatura con Gert Heidenreich, mantiene la stessa libertà inventiva ma costruisce un’opera più unitaria — e molto più breve — tutta «concentrata» sul sogno del giovane Jakob Simon (Jan Dieter Schneider), il figlio del povero fabbro (Rüdiger Kriese) di Schabbach che vorrebbe emigrare in Brasile. Letterato in un paese di analfabeti (nella prima scena vediamo il padre furioso che gli strappa i libri e li butta per strada), sognatore in un mondo arido e poverissimo, Jakob sembra già avere le qualità e i difetti che faranno la caratteristica del suo futuro discendente Herman, il protagonista di Heimat 2 – Cronaca di una giovinezza . Lo vedremo appassionarsi alle lingue degli indios dell’Amazzonia (vuole essere preparato nel caso li incontrasse), innamorarsi goffamente della più intraprendente Jettchen — cioè Antonietta — Niem (Antonia Bill), farsi contagiare dalle idee libertarie diffuse da Napoleone (il film inizia nel 1842, quando covano le prime spinte rivoluzionarie), allontanarsi dalla famiglia e dal più concreto fratello Gustav (Maximilian Scheidt) per tornarci ad accudire l’amata madre tubercolosa (Marita Breuer). Sempre col sogno del Nuovo Mondo in testa. Ma la centralità del personaggio non impedisce al film di aprirsi sulla Storia di quegli anni, su una vita quotidiana fatta di povertà e fatica (i Quaranta furono anni di fame e carestie), raccontando le rigidità della religione (il fabbro ripudia la figlia Lena perché ha sposato un cattolico mentre loro sono tutti protestanti) o i diktat delle leggi (chi emigrava non poteva più tornare in patria) o ancora i flagelli delle malattie (commovente la scena in cui la vecchia madre ricorda i sei figli che gli sono morti; straziante il funerale collettivo dei sette bambini morti in una notte per l’epidemia di difterite) ma anche i primi segnali del progresso, con la complicata costruzione di una specie di trebbiatrice a vapore o la divertente partecipazione di Werner Herzog nei panni dello scienziato ed esploratore Alexandr von Humbolt. Tutto questo Reitz (con il suo direttore della fotografia Gernot Roll) lo filma con una macchina digitale che sembra moltiplicare all’infinito le sfumature del bianco e nero, lasciando al colore solo rarissimi e mirati interventi. Unite al formato panoramico che ingigantisce il ruolo della natura (dove l’uomo rischia a volte di sparire), queste immagini restituiscono allo spettatore la forza di un affresco che va al di là della «semplice» ricostruzione storica per accentuare l’empatia con un mondo e un’esperienza che, pur lontani negli anni, si rivelano vicinissimi e affascinanti. Paolo Mereghetti