Verso la metà degli anni Settanta, Milano si innamorò di Alban Berg. Non che il suo nome fosse sconosciuto in Italia: la prima rappresentazione italiana di Wozzeck, infatti, risale al 1942, nel momento più saldo dell’alleanza con il Terzo Reich, quando l’opera tacciata di bolscevismo culturale dai nazisti venne allestita al Teatro Costanzi di Roma, la sala che reca ben visibile ancora oggi l’egida del Duce.
Nel dopoguerra, con la scoperta della cosiddetta dodecafonia e l’ondata rigeneratrice della nuova musica, la scuola di Vienna cessò di essere un frutto misterioso e proibito per il pubblico italiano, grazie al tenace lavoro di divulgazione di Luigi Rognoni e a eventi culturali di portata storica come il Maggio musicale del 1964 dedicato all’Espressionismo. Tuttavia, poco più di un pugno di intellettuali che avevano letto Adorno e si interessavano agli sviluppi della ribollente avanguardia musicale se ne sentivano riguardati. Finché il Wozzeck allestito alla Scala nel 1977 ruppe il tetto di cristallo che teneva ancora separato il pubblico dai nuovi linguaggi musicali.
Fusione con lo spazio sghembo
La lettura tragica e sconvolgente di Claudio Abbado, che reputava Wozzeck il lavoro più importante del secolo, e lo spettacolo di Luca Ronconi e Gae Aulenti, in una organica fusione della drammaturgia con lo spazio sghembo, in discesa, che inquadrava il drammatico calvario di un’umanità umiliata, conquistarono finalmente il pubblico milanese, che aveva accolto con fastidio l’allestimento del 1952, cantato in italiano e quasi imposto dal leggendario Mitropoulos, e con indifferenza quello del 1971, diretto già da Abbado, con uno spettacolo in stile Laterna Magika di Josef Svoboda.
Tra i tanti giovani che avevano scoperto il teatro di Berg e l’inflessibile tensione intellettuale del cenobio musicale riunito attorno a Schönberg c’era Anna Maria Morazzoni, infaticabile e rigorosa, tra le poche figure italiane riconosciute e ascoltate nel campo degli studi sulla scuola musicale viennese. Nonostante i fondamentali lavori su Schönberg, il suo grande amore era rimasto Berg: ne curò nel 1995, la versione italiana degli scritti, ben più ampia di quella pubblicata a cura di Frank Schneider nel 1981 con il titolo misticheggiante di Glaube, Hoffnung und Liebe (Fede speranza e amore), che riprendeva un acrostico offerto a Schönberg per i suoi sessant’anni.
La scelta stessa del titolo, Suite lirica, risentiva probabilmente del clamore destato dalla pubblicazione, dopo la scomparsa della vedova di Berg nel 1976, del carteggio con Hanna Fuchs-Robettin, l’amante sullo sfondo del quartetto d’archi omonimo.
Ora, una nuova edizione di Suite lirica Scritti musicali e letterari (pp. XV-613, € 55,00) lasciata incompiuta dalla precoce scomparsa, un anno fa, di Anna Maria Morazzoni e chiusa con profonda pietas da Michele Girardi, aggiunge molte pagine nuove, che integrano gli scritti classici come la «Conferenza su Wozzeck» o «Perché la musica di Schönberg è così difficile da capire?».
La parte certamente più interessante della nuova edizione sta negli scritti letterari, in particolare un poemetto di oltre 400 versi intitolato «Hanna», storia di amore e morte dalle vaghe assonanze con la novella Les Willis di Alphonse Karr, da cui è tratta la prima opera di Puccini Le Villi, e un abbozzo di dramma ambientato in una miniera, che rivela come il giovane Berg, ben prima di conoscere i frammenti di Büchner, nutrisse una istintiva simpatia per l’anima tormentata di uomini come Woyzeck, che «con la sua giacca da stalliere – scrive Rilke – sta suo malgrado nell’universo, sotto l’infinito manto delle stelle».
Dotato di eccezionale intelligenza e di innata eleganza, il giovane Berg era un intellettuale viennese che si fece musicista più per necessità interiore che per formazione: quando Schönberg lo accettò come allievo, nel 1904, era in grado di comporre al massimo forme elementari come il Lied. Nel giro di pochi anni, tuttavia, si trasformò in uno dei musicisti più sofisticati della sua generazione, con intuizioni formali folgoranti, testimoniate dalla struttura musicale del Wozzeck.
Fede inscalfibile nella musica
Gli scritti più avvincenti, dunque, sono le analisi dei lavori, i suoi e quelli di Schönberg: Berg è irresistibile quando parla di musica, non in termini letterari o filosofici ma ostinatamente tecnici, mettendo in luce i valori di un linguaggio che sente come l’inevitabile propaggine di quella secolare tradizione iniziata con Bach a approdata a Schönberg, e dimostrando una fede inscalfibile nella profonda mistica della musica: mai fenomeno astratto o gioco matematico privo di vita, bensì specchio di una realtà simbolica profonda, nella quale tutti noi siamo immersi.