Massimo Giannini
Il ministro della paura ce l’ha fatta. Un altro piccolo, grande passo sul viale del tramonto civile e morale di questo Paese è stato compiuto. Matteo Salvini può finalmente esprimere la sua «immensa soddisfazione»: il decreto che porta il suo nome è ormai al traguardo, grazie a un voto di fiducia che spazza via tutti i pensieri e che ha il pregio di nascondere all’opinione pubblica la disonorevole “ritirata strategica” avviata dai gialloverdi sulla manovra. Con una impostura semantica il ministro dell’Interno spaccia il provvedimento per quel che non è: all’apparenza sembra fatto “per la sicurezza”, nella sostanza è pensato “contro i migranti”.
Il significato etico di questo passaggio è devastante. Nel decreto c’è qualche pretestuoso diversivo: dal piano nazionale sugli sgomberi (purché beninteso non si tratti degli “amici” di CasaPound), alla confisca dei beni dei mafiosi (purché si facciano danni ai “nemici” di Libera). Per il resto, il cuore del provvedimento è un colpo mortale ai principi costituzionali della solidarietà e dell’uguaglianza sanciti dall’articolo 10. L’abolizione della protezione umanitaria, che esiste in tutte le democrazie degne di questo nome. Il raddoppio dei tempi di trattenimento dei richiedenti asilo nei centri di accoglienza, sempre più assimilabili a galere. Soprattutto lo smantellamento del sistema di integrazione diffusa sul territorio, i cosiddetti Sprar affidati ai Comuni, che l’Onu indica come modelli da seguire e che hanno prodotto l’isola felice di Riace e del suo sindaco Mimmo Lucano (non a caso detestato da Salvini e indagato dalla magistratura).
Ogni articolo di questo decreto nasce dal pensiero radical-xenofobo della nuova destra italiana, che parla agli uomini spaventati per incatenarli al loro spavento, usando lo “straniero” come nemico e come minaccia. Poco importa che i sindaci di tutta Italia, compresi quelli pentastellati, stiano protestando da settimane, provando a spiegare che questo decreto, invece di contenerlo, sta invece già facendo moltiplicare il numero dei clandestini per strada: 1.500 permessi di protezione umanitaria sono stati revocati o negati, decine di Sprar sono stati chiusi, 23 mila migranti sono usciti dal circuito dell’accoglienza e finiti chissà dove. E importa ancora meno che gli sbarchi di quest’anno siano solo 22 mila, contro i 114 mila del 2017 e i 167 mila del 2016. Quello che conta è che si continui a incidere sulla “percezione”, e che quella falsamente securitaria appaia come l’unica risposta giusta e possibile, innescando la miccia populista che fa esplodere in sequenza la vera ribellione degli individui deboli e la finta protezione dei governi forti.
Il senso politico di questo passaggio è chiarissimo. La Lega consolida una volta di più la sua forza egemonica su un governo che era già a palese trazione leghista. C’è un’immagine incancellabile, a testimoniarlo: dopo il varo del testo in Consiglio dei ministri, il leader del Carroccio scende in sala stampa, a Palazzo Chigi, e al suo fianco c’è Giuseppe Conte che esibisce il cartello #DecretoSalvini come un trofeo. Il premier del Popolo umiliato a comparsa, addirittura a “uomo sandwich” del capo del Viminale. Con questo decreto anti-immigrati Salvini può ostentare così un altro odioso ma vantaggioso feticcio ideologico di fronte a un Paese tremebondo e arrabbiato. M5S partecipa inerme e gregario a un rito sacrificale che certifica la nascita del nuovo “tribalismo” italiano (per usare la formula di Gustavo Zagrebelsky). Di Maio mette la sua firma su un testo che governando da solo non avrebbe mai approvato, e spera che la sua generosità sia ripagata quando Salvini dovrà dare via libera a un disegno di legge anti-corruzione di cui a sua volta, senza il vincolo di coalizione con i pentastellati, avrebbe fatto volentieri a meno. Ma è sempre più evidente che il Movimento, se mai ne ha avuta una, sta ormai vendendo l’anima al diavolo leghista, offrendosi in sacrificio a una delle peggiori destre d’Europa.
Serve a poco mascherare questa incredibile cessione di sovranità politica con un assurdo “metodo di governo” che, in nome del contratto che tutto contiene e tutto esaurisce, si sviluppa alternando patti tendenzialmente scellerati e scambi politicamente innaturali. Il compromesso è sempre e comunque al ribasso, per la società aperta e la democrazia liberale. Ma è ancora destinato a durare, almeno fino a quando la Lega non ne trarrà il suo massimo dividendo elettorale, e deciderà che il bottino di consensi che ha cominciato a sfilare ai Cinque Stelle e ha continuato a rubare a Forza Italia è sufficiente per rompere l’alleanza. A questo punto, la rottura potrebbe avvenire anche prima delle elezioni europee. Soprattutto se la crisi dell’economia si acutizzasse, gli attriti con la Commissione Ue continuassero, la sanzione dei mercati si inasprisse.
Ma senza una sinistra spendibile e un nucleo forte di resistenza civile, l’alternativa lascia ancora più sgomenti. Un governo di destra al cubo, compiuta e definitiva, dove al posto del giovane e inconsistente Di Maio ritorna il vecchio e irrilevante Berlusconi. Un’alba dorata per Salvini, una notte buia per l’Italia.