Se la filosofia italiana è riuscita a esprimere una sua originalità nel tenere insieme rigore analitico e passione argomentativa, superando la sterile débâcle tra filosofi continentali e filosofi analitici, lo deve – tra gli altri – a figure come quelle di Salvatore Veca. Morto ieri nella sua casa di Milano all’età di settantasette anni, era nato a Roma nel 1943. Appassionato di miti, di tragedie e di poesia greca, si era inizialmente iscritto alla facoltà di Lettere moderne alla Statale di Milano. Subito dopo però decise di passare a Filosofia, facoltà in cui si laureò nel 1966. La decisione fu presa senza tentennamenti dopo aver seguito un corso di filosofia teoretica tenuto da Enzo Paci, che divenne poi relatore della sua tesi di laurea con Ludovico Geymonat.
I PRIMI INTERESSI filosofici di Salvatore Veca lo portarono a indagare il rapporto tra scienza e filosofia, in particolare la questione logica, metodologica ed epistemologica in Kant, Whitehead, Cassirer, Frege. È della fine degli anni ‘60 il suo primo libro, pubblicato per Il Saggiatore, dal titolo Fondazione e modalità in Kant. Il decennio successivo sarà dedicato allo studio del programma scientifico di Karl Marx e alla sua analisi critica dell’economia politica da cui scaturiranno altre due monografie. Ma è all’inizio degli anni ’80 che la vocazione filosofica di Veca troverà la sua strada maestra. L’incontro con il pensiero di John Rawls, di cui tradurrà nel 1982 Una teoria della giustizia sarà, infatti, decisivo per la strutturazione della sua propria visione filosofica.
L’opera di Rawls fu edita dalla casa editrice Feltrinelli con cui Salvatore Veca, a seguito di un invito da parte di Giuseppe Del Bo, ha avuto un rapporto continuativo e indissolubile, assumendone la direzione scientifica dalla fondazione già, nel 1974, fino a diventarne presidente dieci anni dopo. Le teorie di Rawls si riverberano in alcuni suoi libri che hanno contribuito a rinnovare profondamente la filosofia politica italiana: soprattutto, La società giusta e Questioni di giustizia in cui emerge la necessità di ripensare il legame tra politica e cultura alla luce delle sfide poste dalla globalizzazione e dalla necessità di fondare un’etica pubblica incentrata sulla teoria della giustizia sociale.
La riorganizzazione della teoria politica normativa, la complessità della sfida posta dal nostro tempo in cui si tratta di ripensare la res publica e i modi della convivenza, hanno portato Veca a maturare uno sguardo disincantato ma anche fiducioso del senso vivo delle possibilità umane. L’equità, la sostenibilità, il pluralismo sono il cuore della sua teoria indirizzata a una giustizia globale.
Docente in varie università italiane tra cui Milano, Bologna, Firenze e, a metà degli anni ’70, nella nascente Università della Calabria, approdò nel 1990 nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pavia e poi presso l’Istituto Universitario di Studi Superiori dove ha insegnato Filosofia politica fino al 2013.
Accanto alle pubblicazioni scientifiche rivolte per lo più agli specialisti, Salvatore Veca amava la dimensione divulgativa e disseminativa del pensiero. Era convinto che l’educazione civile nutre la curiosità intellettuale di ciascuno di noi e apre alla consapevolezza generativa dei nostri criteri di giudizio etico, che possono colmare i vuoti di senso grazie ai quali troppo spesso si è portati a sprofondare negli abissi dell’insensatezza individuale e collettiva.
MAI INDIFFERENTE alle cose della vita, Veca si è sempre prodigato per la stipulazione di un nuovo patto sociale tra scienza, sapere e società civile, e proprio perciò accanto alla vocazione filosofica ne ha coltivato lungo tutto il corso della vita altre due fondamentali: quella di costruttore di istituzioni di cultura e di ricerca e quella di puntiglioso e serio lavoratore dell’industria editoriale.
Tra universalità e concretezza, tra impersonalità e impegno soggettivo, tra incertezza e incompletezza, la sua attività filosofica non ha mai eluso le questioni che riguardano la vita materiale e reale. È stato caratterizzato da una visione eterodossa e antidogmatica che ha saputo tracciare traiettorie inedite nelle sue amatissime e generose scorribande filosofiche. Una di queste ci ha portato nei meandri delle sue meditazioni filosofiche sull’incertezza, facendoci approdare all’elogio della filosofia, o meglio del suo modo di intenderla: «Vorrei una filosofia ospitale. Vorrei che la mia lo fosse per altri. Vorrei anche che ciò fosse naturale. Che avesse il dono della giustezza. Non mi piace l’ospitalità opportunista o quella sciatta, sbracata. Mi piace l’attenzione. E la cura, discreta, nel ricevere, nella cerchia della philia, ha una sua naturale bellezza». Di questa ospitalità filosofica ci ha fatto dono invitandoci a mantenere sia le promesse rivolte alla bellezza sia quelle agli oppressi.