FU PROTAGONISTA DELLA RICERCA CONCETTUALE DEL ‘900
di Chiara Gatti È stato l’artista della terra e, insieme, del cosmo. Un esploratore dal fascino ipnotico come le antenne che ha steso verso il cielo o i sestanti aperti sui colli per misurare i moti dell’universo. Eliseo Mattiacci si è spento a Fossombrone la notte tra domenica e lundì, dopo una lunga malattia. Aveva 78 anni e per mezzo secolo è stato protagonista visionario, intenso e anche sfuggente della ricerca concettuale dal secondo dopoguerra in avanti.
Nato a Cagli, classe 1940, si aggiudicò giovanissimo il primo premio in una collettiva di autori emergenti alla Galleria nazionale d’arte moderna, allora diretta da Palma Bucarelli, dove attirò l’attenzione della giuria con l’opera Uomo meccanico, scultura totemica fatta di ferro e materiali di recupero. Giunto a Roma in pianta stabile, frequentò subito i cenacoli che stavano animando la stagione delle neo-avanguardie in Italia: dalla galleria La Tartaruga di Plinio de Martiis, crocevia di nuovi talenti in cui srotolò il famoso tubone giallo fluo, all’Attico di Sargentini, mitico garage di via Beccaria, inaugurato nel 1969 da Kounellis coi dodici cavalli esposti vivi come opere d’arte “ready made”.
Due mesi dopo, nello spirito sperimentale del luogo, Mattiacci attraversò i locali a bordo di un rullo compressore impegnato a schiacciare sabbia e bitume per formare una scia grafica sul pavimento, tappa epocale nel percorso di revisione dei linguaggi dell’arte. Dietro il suo casco di capelli vaporosi, sigaro in bocca e parole misurate, preferì però mantenere la sua autonomia rispetto ai gruppi costituiti. Un lupo solitario, insofferente alle regole del sistema.
Le gabbie della storia lo classificano come un maestro dell’arte povera, anche se nel 1968 declinò l’invito alla celebre mostra “Arte povera + Azioni povere” promossa negli Arsenali di Amalfi da Marcello e Lia Rumma, già collezionisti lungimiranti, e affidata alle cure di un ventottenne Germano Celant, che sancì allora la nascita del movimento di punta del secondo Novecento italiano.
Mattiacci mantenne un rapporto autentico coi colleghi della pattuglia poverista e con Celant (curò la monografia del 2013 per la Fondazione Pescheria di Pesaro), ma difendendo ostinatamente il suo spazio vitale. Sdoganato a livello internazionale dalla Biennale del 1972, imboccò un iter di crescita che, dopo le performance degli anni Settanta influenzate dagli esercizi della body art, lo rivide in Laguna nel 1988 con una sala personale punteggiata di nuove riflessioni sui temi del magnetismo o della scossa che agita ogni materia inerte. «Si sente l’energia!» ripeteva come un mantra mentre assemblava elementi diversi a caccia di un dinamismo insito nelle cose, di scuola futurista. Non a caso nel 2016 espose al Mart di Rovereto in parallelo con un omaggio a Boccioni.
Dal primo Parafulmine in filo spinato, gomitolo aguzzo di tensioni in potenza, avanti fino ai dischi puntellati come parabole per captare messaggi siderali, la sua grande ossessione fu quella di misurarsi con l’infinito e l’ignoto. Pativa l’ansia dell’uomo di varcare i confini del visibile. «Vorrei lanciare una scultura nello spazio. Sarebbe bello sapere che lassù orbita una mia forma spaziale» confessò negli anni della maturità.
Prima lui, Alberto Giacometti aveva immaginato di seppellire un bronzo e lasciarlo riemerge dopo secoli. La prospettiva di Mattioni non era più archeologica, ma astronomica. Uomo delle stelle, forgiò nel metallo strumenti per dialogare con l’universo che avessero forme arcaiche, come segnali di civiltà primigenie spinti verso il creato. «Dall’età del ferro al Tremila…» era l’arco di tempo che voleva abbracciare con le sue sonde dai volumi monumentali issate in una serie di mostre memorabili curate, fra i tanti, da Bruno Corà o Fabrizio D’Amico, e raccolte poi nell’ultima, importante antologica l’anno scorso al Forte Belvedere di Firenze.