di Pierluigi Panza
Comunismo, diritti umani, controcultura: l’estetica come azione politica
Che nostalgia! Alla 56ª Biennale d’arte, che si apre domenica 9 a 120 anni dalla prima edizione, va in scena la rivisitazione 2.0 (anche se non c’è l’ombra di internet) della storia dell’utopismo comunista, dei diritti umani e dell’arte come controcultura. A cucinare questa ricetta intitolata All the World’s Futures — strappalacrime e retrospettiva per chi ha almeno cinquant’anni, forse educativa per i black bloc nichilisti —, è stato chiamato un Piketty dell’arte contemporanea, nato in Nigeria cinquant’anni fa ma ben forgiato nei salotti newyorkesi e già sperimentato a Documenta di Kassel: Okwui Enwezor.
Se negli anni Settanta l’arte era forma di liberazione dal giogo borghese (come insegnavano Sartre e Marcuse) oggi è diventata la sua rivisitazione etno-chic in una prospettiva le cui radici sono ben piantate nell’élite capitalistica internazionale e globalista. Una prospettiva talmente multiculturalista che, mentre da un lato la Biennale conta 89 padiglioni nazionali per offrire materiale identitario, nella mostra del curatore Enwezor difficilmente si può fissare la nazionalità degli artisti esposti, perché sono quasi tutti apolidi.
Sull’ingresso del padiglione centrale ai Giardini, dal quale è opportuno iniziare la visita, accoglie il visitatore la scritta Blues Blood Bruise (musica blues, sangue, ammaccatura): significato e connessione di queste tre parole sono «aperti e liberi» secondo il curatore, ma rimandano comunque a un episodio americano degli anni Sessanta in cui un ragazzino di colore fu ingiustamente accusato di omicidio e queste tre parole usate per la sua difesa. Pendono dalla grondaia di questo stesso padiglione lunghi drappi neri: «Non sono drappi, ma tele dipinte di Oscar Murillo e ci mettono in contatto con il resto della mostra — spiega Enwezor —, che è una mostra politica nel senso che tratta del nostro rapporto con la storia. Dal Seicento ci interroghiamo su cosa ci lacera e oggi sembriamo vivere queste lacerazioni senza cercare di dare una risposta unitaria». Ovviamente la rassegna — pure lei — mette in scena queste lacerazioni e non dà risposte. E così, superate le gramaglie eccoci di fronte The western wall , il muro realizzato nel 1993 da Fabio Mauri con le valigie dei migranti (oggi il brasiliano Vik Muniz varerà, invece, una barca dei migranti) , poi un video in cui Pierpaolo Pasolini spiega Cos’è il fascismo e infine — e qui ci scappa una lacrimuccia — l’inno sovietico a tutto volume che accompagna le immagini dello svedese Runo Lagomarsino sui successi dell’ingegneria falce e martello. A questo punto ci si potrebbe aspettare di veder spuntare nell’altra sala la salma di Lenin direttamente dalla Piazza Rossa; invece no.
Nell’Arena al centro del padiglione centrale ai Giardini si legge ininterrottamente Das Kapital di Marx, ma in inglese (e senza traduzioni o cuffie), accompagnato però, per alleggerire questo «oratorio» (cioè riflessione collettiva, come la definisce Enwezor), da alcune performance: ad esempio, la lettura degli appunti ingialliti su Claude Lévi-Strauss di Louis Althusser (il filosofo che strangolò la moglie, ma fu dichiarato incapace di intendere) oppure l’osservazione di opere di «migranti, ma non solo, influenzati da Marx». Sono opere come Theory of Justice (che è anche il titolo di un libro del filosofo politico John Rawls) dell’ex critico teatrale austriaco Peter Friedl, che ha preso ritagli di giornale e foto dagli anni 40 in poi sul contropotere: ci sono i partigiani, Fidel Castro, Feltrinelli con Pasternak, Nixon, i desaparecidos…, o come quelle dello scomparso registra cinematografico Chris Marker, che mostra i rifugiati politici in un’ambasciata nel 1973 o del «realista sociale» londinese Jeremy Deller, un juke box con rumori rivoluzionari e una raccolta di volantini di protesta.
Usciamo a prendere una boccata d’aria, magari davanti al padiglione israeliano curato da Hadas Maor costruito con pneumatici a simulare un bunker difensivo; e se l’aria è troppo pesante per la nostra riflessione, il padiglione russo offre un’opportunità: una gigantesca maschera antigas di Irina Nakhova.
All’Arsenale molte opere sono state realizzate apposta per questa Biennale e l’aria assume i colori dell’arcobaleno: i temi sono gli stessi (diritti umani, contropotere, femminismo…) ma non più rivisitati bensì interpretati in versione etnica 2.0. C’è la torre di tamburi alta sette metri di Terry Adkins (scomparso nel 2014 a Brooklyn), ci sono le performance lungo l’Arsenale trasformato da enormi muri bianchi, c’è il Cannone semovente di Pino Pascali del ’65, l’apocalisse di rottami della tedesca Katharina Grosse, le immagini dei movimenti femministi della svedese Petra Bauer, il Throne di Gonçalo Mabunda costruito con ordigni esplosi e poi maschere, stracci (chic), i vestiti tirati contro Putin esposti da Gluklya (Natalia Pershina-Yakimanskaya, fondatrice del collettivo Factory of Found Clothes ) e i grossi timbri di Barthélémy Toguo con la scritta ambigua Je suis Chalie Ebdo? .
Anche in altri padiglioni sparsi in città domina l’idea dell’arte come azione politica — proprio qui, dove la politica ha abdicato ed è quasi tutto commissariato. A Ca’ Dandolo il Padiglione dell’Iraq espone acquerelli contro l’Isis e disegni realizzati da rifugiati; il padiglione dell’Armenia all’Isola di San Lazzaro una memoria sul genocidio perpetrato dai Turchi proprio un secolo fa; l’Azerbaijan punta sugli artisti che si opposero «al repressivo regime sovietico» e pure nel padiglione dell’Albania, Armando Lulaj ironizza nei suoi video sugli occupanti sovietici che colpirono una balena credendola un sottomarino. Sì perché il socialismo reale non fu poi quell’esperienza di liberazione dal capitalismo che Marx si aspettava; e così nacque un’arte come contropotere del contropotere. E oggi finiscono tutte in quel «Parlamento delle forme» che è la Biennale di Venezia.