«A Cannes un’occasione perduta L’Italia ora impari dalla Francia».

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di Paolo Merenghetti

La premessa è d’obbligo: «Non ho nessuna polemica da fare. La giuria ha deciso e ai registi in gara non resta che accettare il verdetto. Sportivamente». A parlare è Paolo Sorrentino, uno dei tre registi italiani in gara al Festival di Cannes, che molti davano tra i favoriti alla vittoria finale con il suo Y outh – La giovinezza . Una previsione che è svanita domenica sera sul palco dell’auditorium Lumière, portandosi via anche le speranze degli altri due italiani, Nanni Moretti con Mia madre e Matteo Garrone con Il racconto dei racconti .
Amareggiato? Deluso? Dispiaciuto?
«Mi spiace per il cinema italiano, non per me. E sono molto sincero quando dico di non aver alcun rimpianto. Ultimamente ho fatto una discreta scorpacciata di premi. Ho avuto le mie soddisfazioni. Non era certo a Cannes che cercavo un qualche tipo di rivincita».
Ma i 15 minuti di applausi non l’avevano fatta sperare?
«Ho sempre pensato che Youth non fosse il film adatto al Festival di Cannes. È un film piccolo, caldo, emozionante. Per vincere ci voleva altro».
Eppure mai come quest’anno la nostra squadra sembrava destinata a grandi risultati. Vi eravate anche fatti fotografare tutti e tre insieme…
«Era stata un’idea nata per caso, sentendoci dopo la conferenza stampa del Festival. Non voleva essere un gesto trionfalistico, solo un modo di farci gli auguri».
Comunque resta l’amaro in bocca.
«Ripeto: per il nostro cinema, non per me. Non sono i premi che determinano lo stato di salute di un cinema e comunque mi sembra importante che alla fine non sia partito il tradizionale inno al disfattismo che ogni tanto si sentiva».
Ma uno non viene a Cannes perché spera di vincere?
«I premi, se vengono, arrivano dopo. Prima c’è il mercato, che è la ragione più importante per cui si viene a questo festival. Fino a qualche anno fa era una fatica vendere i nostri film all’estero. Adesso non è più così ed essere in gara sulla Croisette aumenta la nostra forza contrattuale. I film hanno bisogno di eventi che attirino l’attenzione. Cannes è uno degli eventi più importanti del mondo e aiuta molto il cinema. Anche Venezia potrebbe esserlo, se solo tutti lavorassero in quella direzione».
Lei conosce personalmente i Coen, i presidenti della giuria. La moglie di Joel, Frances McDormand, è stata l’interprete di un suo film. Vi siete visti a Cannes?
«Ci siamo incontrati in un paio di occasioni mondane, ma come succede tra gentiluomini non abbiamo parlato di argomenti che potessero creare imbarazzo. Come il mio film».
Anche lei rimpiange che non ci fosse un italiano in giuria?
«Un italiano non sarebbe servito per farsi raccomandare, ma per veder confermata internazionalmente l’importanza del nostro cinema».
Ma un giurato di casa nostra avrebbe potuto illustrare meglio le qualità e le specificità del nostro fare cinema.
«Come probabilmente ha saputo fare Guillermo Del Toro con il film messicano in gara».
Questo vuol dire che il nodo è politico e industriale…
«Diciamo che se un Paese ha un comparto che produce valore, quello va usato al meglio. Chi ha il petrolio lo sfrutta. Noi non abbiamo i pozzi ma un cinema che si fa conoscere all’estero e che conquista anche qualche riconoscimento. Bisognerebbe che tutti, la politica, l’industria, il Paese intero facesse quadrato intorno a lui».
Compresi i critici che non hanno difeso il suo film?
«Assolutamente no. I critici devono fare il loro mestiere. Basta solo che non ci mettano malevolenza o cattiveria gratuita. Io mi riferivo alla politica e all’industria. Abbiamo accanto un esempio da seguire, quello della Francia che ha saputo difendere il suo cinema come meglio non si poteva. Perché non copiarli? Ho letto recentemente che il comune di Parigi ha comprato alcuni cinema in crisi per permettere di continuare a esistere. Noi, a Roma, dobbiamo lottare perché l’opinione pubblica si accorga almeno di quello che alcuni coraggiosi tentano di fare».
Scusi se insisto: ma davvero non ha mai pensato che Cannes le dovesse un qualche tipo di risarcimento, dopo che aveva ignorato «La grande bellezza» mentre il resto del mondo la premiava?
«Se l’avessi pensato non ci sarei nemmeno venuto a Cannes. Ho avuto le mie soddisfazioni e non ho bisogno di alcun risarcimento. La vita e la storia di un film sono molto più lunghe dello spazio di un festival e del peso di un suo premio. Sono ben altre le tappe che bisogna superare e vincere».
«Youth» è sulla strada giusta: in cinque giorni ha incassato 2 milioni e 622 mila euro, più di quanto «Mad Max – Fury Road» o «Il racconto dei racconti» hanno fatto in due settimane. Adesso arriva il tempo del riposo?
«Devo pensare alla mini-serie sulla giovinezza del Papa. Ho davanti sei mesi di lavoro con ripresa di qua e di là dell’Atlantico. Non c’è tempo per il riposo o per i rimpianti».
Ma ha appena dichiarato che fare il regista logora, e che nel suo futuro ci sono solo quattro film…
«Lo dicevo più sul faceto che sul serio. Sono cose scherzose, dette tra amici, in radio. Sul mio futuro non saprei davvero cosa dire».