di Mario Andrea Rigoni
Tutti i fili dell’esistenza fisica, intellettuale e immaginativa di Costantino Kavafis, il massimo poeta greco moderno (1863-1933), convergono verso un unico nodo: Alessandria d’Egitto. Essa, oltre che la città dove nacque (da genitori greci di origini costantinopolitane) e dove abitò quasi costantemente (a eccezione dei sette anni trascorsi nell’adolescenza in Inghilterra e di qualche breve soggiorno in varie città europee), rappresenta tutto il suo mondo ideale. D’altra parte l’Alessandria del presente, che Kavafis pur vive e ama come luogo di clandestini amori omosessuali, accende la sua immaginazione e la sua poesia soprattutto per quella diffusa civiltà greca postclassica che ad Alessandria scomparve, con l’avvento dell’Islam, molti secoli prima che non ad Atene o a Costantinopoli.
Kavafis è l’unico esempio di poeta moderno integralmente alessandrino. Dichiarò una volta che, mentre la maggior parte dei poeti sono solo poeti, egli si considerava un poeta storico. Intravediamo in questa affermazione, che può sorprendere, molti possibili significati. Innanzitutto Kavafis è indifferente alla natura sia come oggetto sia come sentimento: nelle sue poesie il paesaggio stesso sopravvive come semplice scorcio urbano, fatto di caffè, strade malfamate e taverne miserabili dove solo la sua fantasia o la sua memoria erotica può rivestire i giovani incontrati di un’aura di divinità antica o di regalità orientale.
È il poeta dell’anti-natura. Da incurabile decadente e da perfetto alessandrino ama l’artificio, che garantisce, a differenza della natura, l’incorruttibilità della bellezza. Nella nuova e felice traduzione dell’opera di Kavafis appena pubblicata da Nicola Crocetti, che è anche la più ampia oggi esistente ( Le poesie , testo greco a fronte, con introduzione e note di Nicola Crocetti, Einaudi), si incontra, tra le Poesie nascoste , un esempio quanto mai eloquente: «Non voglio i narcisi veri – io non amo / le rose né i gigli veri. … Datemi fiori finti – la gloria dello smalto e del metallo / forma che non sfiorisce, non si piega, non si decompone» ( Fiori finti ).
L’orrore della natura e, per conseguenza, del sentimento, contrapposto alla superiore distanza contemplativa tocca l’apice nella cruda arguzia della poesia Salomè , tratta da un brano del Vangelo apocrifo della Nubia. Salomè cerca di vincere la resistenza all’amore di un giovane sofista recando su un vassoio d’oro, come pegno, la testa del Battista. Il filosofo, per scherzo, dice di non volere la testa del Battista, ma quella di Salomè stessa. Mentre lui, immerso nei suoi studi, dimentica il fatto, uno schiavo zelante gli porta la testa recisa dell’innamorata: nauseato, egli ordina di rimuovere quella carne sanguinolenta «e si rimette a leggere Platone».
L’interesse dominante e la vera grandezza di Kavafis trovano la loro fonte nella storia, nella letteratura e nel mito, in un verso di Omero, in un racconto di Plutarco o in una pagina di Gibbon, con una predilezione per gli aneddoti marginali e i personaggi minori, nei quali egli si cala traendone, non di rado con un intento gnomico, riflessioni e suggestioni memorabili attraverso quelle «corrispondenze» baudelairiane che conosceva bene.
Aspettando i barbari , la poesia più nota di Kavafis (tradotta anche da Montale), mescolando lo smarrimento di un impero agonizzante all’inutile attesa di una palingenesi barbarica, simboleggia una condizione storica e spirituale che si ripete nel tempo fino ai nostri stessi giorni. Anche Itaca è allusiva: invita a non perdere di vista la meta, ma senza per questo affrettare il viaggio, senza rinunciare a conoscenze e avventure, perché solo in questo modo si capirà «che cosa vuol dire Itaca».
In molte poesie di Kavafis domina il senso dell’incontrastabile fato e della vanità dei nostri sforzi, simili a quelli dei Troiani, ai quali tuttavia non bisogna rinunciare: si tratti degli eroi delle Termopili, «degni di più grande onore/ se prevedono (e molti lo prevedono)/ che all’ultimo comparirà un Efialte/ e comunque i Persiani passeranno» ( Termopili ) o di Antonio che, assediato da Ottaviano, vede profilarsi la propria totale rovina, eppure dal ricordo dello splendore di Alessandria meritata e perduta deve trarre un’estasi suprema ( Il dio abbandona Antonio ). Ma un lamento cosmico si leva dai nobili e immortali cavalli di Achille che scalpitano e versano lacrime sul corpo di Patroclo «inanimato — estinto —/ormai carne abietta — lo spirito svanito —/ senza più fiato — indifeso — tornato dalla vita al grande Nulla» ( I cavalli di Achille ).