La diplomazia come vocazione

La diplomazia è un atto di fede. Ora più che mai questa affermazione appare a doppio significato: da un lato, mentre la guerra russo-ucraina prosegue, di fronte all’avanzata delle truppe di Vladimir Putin e alla tenace resistenza di Kiev l’oltranzismo delle due parti è tale che gli spazi diplomatici hanno un sentiero decisamente stretto e pare di essere a Spes contra spem, di fronte al timore di una guerra lunga. Dall’altro, però, le parti che stanno mediando sono quelle legate a potenze di matrice politica e spirituale al tempo stesso.
LA DIPLOMAZIA DI DIO
Per primo ci ha provato Emmanuel Macron. Il quale tuttora prova a mettere in campo il peso della mediazione sistemica di cui è capace. La France eternelle alla prova della storia assieme alla dottrina Macron di “autonomia strategica” europea per ora si siede in panchina, in attesa degli eventi.

Abbiamo in campo Israele, Stato degli Ebrei e attivo nella mediazione fin dalle prime battute del conflitto. Un Paese che tramite il premier Naftali Bennett si muove su più fronti: ricordando l’ascendenza esteuropea e russa di molte componenti della sua popolazione e l’appartenenza del presidente ucraino Volodymir Zelensky alla comunità ebraica. Il tema delle radici va approfondito in un contesto in cui Israele si sente legato alle due parti in lotta e il premier Naftali Bennett, appartenente alla destra religiosa ma profondamente pragmatico, capisce la natura profondamente distruttiva del conflitto per l’ordine globale.

L’EXIT STRATEGY PASSA DALLA SUBLIME PORTA
Ma è in partita anche la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Il Sultano unisce storia, geopolitica e letture strategiche nella sua opera di mediazione: lavora con Kiev fornendogli armi e tecnologia, ma fa anche da tempo sponda con la Russia su energia e gas; ha costruito una relazione schietta con Vladimir Putin fondata su linee rosse precise ma vuole anche superare il tradizionale metus della Turchia per la marginalizzazione ad opera della Russia. C’è anche in questo caso un’attenzione di matrice geo-religiosa: Ankara sta usando la promozione dell’Islam sunnita come via della sua strategia diplomatica e mentre su alcuni tavoli come quello siriano cerca con la Russia accomodamenti sulla scia dell’appiattimento delle tensioni interne all’Islam, in Ucraina la cooperazione è utile ai fini del bilanciamento dell’influenza russa nel Mar Nero e al mantenimento in essere di un clima di instabilità in Crimea e nel Donbass per tramite della minoranza tatara. Capace di aumentare il potere negoziale di una nazione che non ha amici o nemici fissi, ma solo interessi. Tanto che Ankara ha in programma di finanziare, progetti temporaneamente sospesi, moschee sia a Kiev che nelle regioni musulmane della Russia. E in vista di questa dinamica ora esercita un bilanciamento diplomatico. Il Sultano non è meno pragmatico di Emmanuel Macron e Naftali Bennett, ci ricorda Emanuel Pietrobon, ma ha qualcosa che loro non hanno e che non possono dare allo Zar: le famigerate garanzie di sicurezza

Interregno di Dio

Inversamente all’attitudine del Santo Padre, del Re di Gerusalemme e del Sultano della Sublime Porta, gli Stati Uniti continuano a mandare armi (e soprattutto advisor) in Ucraina, mentre la Cina ha semplicemente proposto come piano di pace “il cessate il fuoco” e la ripresa del dialogo tra le parti, due posizioni tutto sommato complementari nella volontà di tenere il conflitto a bassa e media intensità nel cuore dell’Europa Orientale. Una strategia che in fin dei conti accelererebbe la fine dell’interregno, a loro vantaggio, inaugurando questo nuovo assetto internazionale (con un asimmetrico quanto subalterno rapporto Usa-Europa e Cina-Russia dettato da una guerra incancrenita e a singhiozzo). L’ordine è preferibile al caos ma a certe condizioni. Gli uomini possono diventare re, non possono sostituirsi a Dio, e necessitano della benedizione di chi detiene un mandato spirituale.

Israele e Turchia hanno di recente normalizzato i rapporti bilaterali in nome del ruolo da pontieri nella crisi. La visita del capo di Stato israeliano Herzog ad Ankara delle scorse settimane, la prima da quasi un decennio, ne è stato simbolo. E il fatto che le prove generali di questo riavvicinamento sia stato il viaggio del Papa in Iraq nel 2021, “benedetto” da Israele in nome della promozione degli Accordi di Abramo e vegliato da vicino dalla Turchia che ha dato il suo benestare, segnalano l’esistenza di un triangolo di mediatori che riguarda anche il Vaticano. E proprio sulla scia del lavoro diplomatico svolto finora da Israele e Turchia si muove la diplomazia pontificia. Papa Francesco e il cardinale Pietro Parolin stanno scavando da tempo la galleria della diplomazia. Parolin approvando, implicitamente, il diritto all’autodifesa ucraina non ha disconosciuto la resistenza di Kiev. Francesco si è fatto apostolo della pace e critico dell’incremento delle spese militari occidentali, disconoscendo di fatto la strategia euroatlantica e la capacità di Usa e Ue di fare da mediatori.
ENTRA NEL CLUB DEI 500, UNA CELLULA NELLA CELLULA
Chiamando Zelensky, si è mostrato aperto a mediare politicamente. Chiamando Kiril, il patriatca “crociato” di Mosca, accusato di essere il cappellano ortodosso di Vladimir Putin, ha tenuto la via ecumenica operativa. Quasi isolato dai confratelli ortodossi, colpito dalle prese di posizioni dei patriarchi di Georgia e Romania e del metropolita Onufry dalla Chiesa Ortodossa Ucraina fedele Patriarcato di Mosca – quest’ultimo divenuto destinatario degli aiuti inviati dal Patriarca serbo Porfirije, – il Patriarca di Mosca Kirill ha recentemente incontrato il nunzio apostolico Giovanni D’Aniello cercando di ridefinire il perimetro delle attività religiose a quello di moderatori e pacificatori, di fatto indirettamente giustificando il suo silenzio nei confronti delle azioni di Putin. E dietro si può leggere l’influenza di Papa Francesco, da lui incontrato sei anni fa a L’Avana in un primo, storico bilaterale tra i capi delle due Chiese con il maggior numero di fedeli al mondo.

Spiritualpolitik

Matteo Matzuzzi ci restituisce, nel suo volume di centoventi agili pagine, un’analisi assai esauriente sui dossier più importanti per il Vaticano, e risulta imprescindibile per comprendere appieno o quasi, il quadro geopolitico nel quale si concretizza l’agire della “diplomazia di Dio”, che ad ogni modo, “è solita operare in modi misteriosi”.

Di conseguenza, attori come Israele, Turchia, Vaticano coltivano il senso della lunga durata e una cultura del dialogo che si salda con il loro essere attori maturi sul piano geopolitico a cui la guerra, per ragioni identitarie (Israele), strategiche (Turchia) e di lunga prospettiva (Vaticano, essendo Francesco sostenitore del multipolarismo) non conviene. E questa consapevolezza e capacità d’azione nasce anche dal radicamento del pensiero di leader come Bennnet, Bergoglio e Erdogan, che non potrebbero essere più diversi tra di loro, in un terreno sociale, culturale, ideale e umano che fa riferimento all’insegnamento delle tre grandi religioni monoteiste. La guerra in Ucraina ha cambiato forse per sempre la globalizzazione perché, nel suo scoppio e nella lotta per la sua risoluzione, si vede la definitiva sconfitta di qualsiasi discorso che riduce l’identità a un mero residuato bellico. E si spera che questa comunanza di vedute possa spianare la via di un dialogo politico esteso alle grandi potenze. Ora messe in secondo piano da un triangolo inedito e attivo.

Che fine ha fatto la pandemia?

Il dibattito mediatico procede a compartimenti stagni: di fatto un solo argomento monopolizza l’informazione, per un tempo determinato, appiattendola in una disorientante mono-tematicità e risolvendola in un’onnipresente narrazione emergenziale. Il tema del momento è l’immigrazione? Parliamo solo di immigrazione. Covid? Solo covid. Guerra? Solo guerra. Prevale un pensiero unico non discutibile che semplifica con logica manichea la complessità della realtà e mette a tacere non tanto le forme di dissenso, quanto il puro e semplice desiderio di capire qualcosa in più, di orientarsi.

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Nell’etere, e oltre.
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