Una mostra al Museo del Novecento ripercorre la traiettoria di Antonio Scaccabarozzi (Merate 1936 – Santa Maria Hoe’ 2008) che ha attraversato cinquant’anni di ricerche artistiche, in Italia e in Europa, senza mai smettere di sperimentare
Fatevi coraggio. La mostra c’è. Ed è, come annunciato dalla stampa, al Museo del Novecento di piazza del Duomo a Milano. Che quasi non ci sia neanche un’indicazione all’esterno – e nemmeno all’interno – del museo è una quisquilia da provincialismo e sciatteria italiota. “Dai, lo sanno tutti che la mostra di Scaccabarozzi è al quarto piano del museo”. Che non ci sia poi un’indicazione neanche al quarto piano, non importa. I gentili custodi vedendo qualcuno timido e smarrito gli diranno che effettivamente in quel piano c’è la mostra.
Trattato come un Carneade diventa dunque legittimo chiedersi: Scaccabarozzi, chi era costui?
“Antonio Scaccabarozzi […] nato a Merate nel 1936. […]
1965 Pittura astratta.
1969 Programma di lavoro basato sul metodo, che dà i risultati migliori nel suo superamento, rendendo importanti quegli aspetti imprevedibili, che si succedono inattesi.
1983 Opere caratterizzate intorno all’idea che stendere una quantità di colore sia già fare pittura. Nessuno lo fa senza ragione (aggiunto a matita, dall’artista)
1995 L’opera diventa un oggetto che separa e contiene lo spazio.
1996 Integrazione e valorizzazione dello sfondo guardando attraverso l’opera.
2001 Geografia
2003 Intimo
2004 Attraverso le velature” (aggiunto a matita, dall’artista).
Righe scritte dallo stesso artista in una sintetica cronologia dattiloscritta per la brochure di una mostra.
Scaccabarozzi si trasferisce già nel 1961 a Milano dove segue i corsi di pittura della Scuola Superiore di Arti Applicate del Castello Sforzesco. Pur essendo un personaggio molto schivo – passerà la maggior parte della sua vita a Montevecchia, in provincia di Lecco, non lontano da dove è nato – entra subito nella vivida atmosfera che domina la città meneghina negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale.
Nel 1959 si trasferisce a Parigi dove lavora – come pittore di scena – per il teatro. Seguono viaggi a Londra, in Olanda, in Spagna.
Al suo ritorno in Italia alla fine degli anni Sessanta – forte anche dell’esperienza parigina – avvia una ricerca artistica fortemente connaturata a quanto succede a Milano. Milano è allora dominata dalle figure di Lucio Fontana e Piero Manzoni (scomparso, giovanissimo, nel 1963) ed è forte la tendenza a un originale superamento dell’arte informale. Scaccabarozzi diventa amico di Gianni Colombo e Grazia Varisco, conosce Castellani, Bonalumi…
Per tutti questi artisti la ricerca è legata anche e soprattutto al concetto di superamento della superficie pittorica, al suo travalicamento, alla sostanziale insofferenza per l’angustia della superficie pittorica. Fontana la perfora, la taglia, ci va dentro, Castellani la stravolge, Colombo, Varisco la movimentano. L’arte povera andrà più in la. La supera creando veri e propri ambienti.
Scaccabarozzi è fortemente influenzato dalla psicologia della Gestalt e dalle sue implicazioni nell’arte, soprattutto per quanto riguarda la percezione e l’esperienza dell’oggetto creato.
Dopo esperienze figurative ed espressionistiche il suo focus diventa un’esplorazione sul significato degli aspetti della vita a partire dai suoi momenti più elementari, e su come esprimerlo sulla superficie pittorica. E ciò, partendo proprio da un’indagine sulla percezione, condotta sulla base di una programmaticità rigorosa.
Le sue prime prove astratte – le Superfici sensibilizzate, gli Elementi – si possono apparentare all’Arte cinetica. In realtà – anche se abbiamo visto il suo legame con Colombo e Varisco e la sua amicizia con l’artista François Morellet co-fondatore del collettivo attivista di arte cinetica e ottica Groupe de Recherche d’Art Visuel (Grav) francese – l’artista non fece mai ricorso a meccanismi cinetici che muovessero le opere. Il suo “cinetismo” semmai era determinato dal gioco e dalle vibrazioni che sapeva riversare sulle superfici grazie a una ricerca dei materiali, della luce, dei colori, dei riflessi e del movimento stesso dell’opera. Spesso amava esporre le sue prime opere all’aperto affinché la luce naturale potesse dare ai quadri la dinamicità cui aspirava.
Nascono così alcuni cicli che l’artista esplora fino al loro superamento.
Negli anni Settanta nascono le tele fustellate, spesso composte con impronte dattiloscritte in cui la superficie sollevata provoca inediti effetti di luce. Nella seconda metà di quel decennio comincia una serie, quella delle Prevalenze, in cui la ricerca dell’oggettività, della neutralità si stempera, si umanizza con l’imprevisto, il caso, l’errore a cui l’artista non si oppone ma che anzi accoglie come dialogo tra razionale e irrazionale: “I risultati migliori nel suo superamento, rendendo importanti quegli aspetti imprevedibili, che si succedono inattesi”.
Agli inizi degli Ottanta nascono le Iniezioni, le Immersioni, le Delimitazioni in cui l’artista quasi chiede alla tela di esprimere da sé le sue possibilità espressive. I colori sono distribuiti a mano libera in “linee quasi rette” che registrano l’esitazione del gesto, oppure iniettati con una siringa, o distribuiti per immersione in vasche di colore, a misurarne la capacità di assorbimento, di distribuzione.
Nascono così le Misurazioni che trovano realizzazione quasi concettuale, ma formalmente rigorosa, nella serie Misura reale – Misura rappresentata in cui l’artista verifica usando foto ritoccate la differenza tra percezione e realtà.
Dopo un incidente, con conseguente frattura, crea una serie di opere a matita: Mano sinistra. Mano destra in cui si rifà alla ricerca di Boetti (e al suo “scrivere con la sinistra è disegnare”).
Nel Novanta ritorna alla pittura con la serie Quantità in cui stende su materiali diversi (tela, polietilene, carta di giornale) i colori. Nello stesso periodo radicalizza la sua ricerca creando superfici di pittura senza supporto: stende il colore, mescolato con colla e mastice e rinforzato da una rete, fino a farlo diventare una scultura bidimensionale. La pittura si fa così oggetto autonomo, si realizza in se stessa.
Alla fine del decennio la ricerca di neutralità lo porta a una scelta radicale, l’uso di superfici in polietilene: un materiale industriale modesto, ordinario, che l’artista dispone sulle pareti nei colori che trova nei negozi. Non si pensi ai Sicofoil di Carla Accardi. L’intervento di Scaccabarozzi è ancora più radicale. Interviene esclusivamente piegando la materia, disponendola a strati (nelle Eclissi) o discostandola dal muro (nelle Banchise). Sarà l’ambiente stesso o il movimento dei visitatori a determinarne l’esito.
Nel 2004 il cerchio si chiude: abbandonate le ricerche più sperimentali l’artista si riaccosta alla pittura. Lo fa con le Velature e lo fa con estrema coerenza. Il lavoro consiste in tele su cui si sovrappongono numerosi strati monocromi. Non c’è più la ricerca della neutralità dell’arte. Non si ambisce all’oggettività. La scelta è tutta del pittore. Ma il dialogo con il percettore, il pubblico, rimane l’aspetto centrale della sua arte.
Scaccabarozzi muore nel 2008.
Antonio Scaccabarozzi. Progettare sconfinare, a cura di Gabi Scardi, Milano, Museo del 900, fino al 29 maggio 2022