Un dialogo serrato tra esseri pensanti e meri esecutori che porta alla luce la vera banalità che si nasconde dietro la violenza, con Piccolo e Pierobon diretti da Avogadro su testo di Massini
Assistere allo spettacolo Eichmann – Dove inizia la notte in questo periodo,
con negli occhi le immagini della guerra appena scoppiata in Ucraina, è
d’impatto, soprattutto perché mostra come certe logiche meschine siano
costanti nello scorrere della storia.
In scena al Piccolo Teatro Grassi fino al 6 marzo, questo atto unico di
Stefano Massini, con la regia di Mauro Avogadro, mette in scena un
immaginario scontro tra Hannah Arendt, autrice de La banalità del male, e
Adolf Eichmann, il gerarca nazista diventato famoso per la strenua difesa
del suo “eseguire gli ordini”.
Sul palco, come ai due angoli di un ring,
troviamo Ottavia Piccolo e Paolo Pierobon, entrambi attori di
grandissimo talento che prestano corpo e voce a soggetti fin troppo
stigmatizzati mostrandone tutte le sfumature.
Stefano Massini costruisce questo dialogo drammatico partendo dagli
scritti della Arendt e dai verbali degli interrogatori cui Eichmann fu
sottoposto durante il processo a Gerusalemme, dopo il suo arresto in
Argentina nel 1960: ne nasce un botta e risposta che tratteggia, da una
parte l’incredulità della Arendt di fronte alle giustificazioni del gerarca, e
dall’altra la schiacciante convinzione di Eichmann: quello che vorremmo
considerare un mostro si presenta infatti come un uomo tra tanti che ha
fatto ciò che doveva fare.
È disarmante che la dialettica di Eichmann non contempli il senso di colpa
e si nasconda dietro alla burocrazia e ai molteplici ingranaggi di una
Soluzione Finale di cui lui è stato “solo” un mero esecutore. Chiunque
altro, al suo posto, avrebbe fatto lo stesso: la necessità di eseguire gli
ordini del Fuhrer non ammette ripensamenti. Nel suo ragionamento
un’altra via non era possibile.
La Soluzione Finale è la peste che non
poteva essere evitata, anzi, che ha reso possibile la fortificazione
dell’umanità. Eichmann arriva a sostenere che gli ebrei dovrebbero essergli
grati, per aver permesso ai loro migliori “esemplari” di sfuggire alla
carneficina, per poter prosperare a Gerusalemme.
La scenografia aiuta lo spettatore a percepire la cupezza e la drammaticità
delle parole del gerarca: scale di grigio ovunque, luce opaca, rumori di
spari e urla, divise con svastica da una parte e abiti con stella di David
dall’altra, contrapposizioni costanti dei profili degli attori…
Tutto
suggerisce la difficoltà nel trovare un colpevole in quell’uomo micragnoso
che non pensa ad altro che alla carriera, alla foto con il Fuhrer da
appendere in ufficio, alla possibilità di vivere a Berlino. Massini, con
questo confronto costante, sottolinea che il ribrezzo che proviamo per
Eichmann non ha a che fare con la violenza che ha perpetrato, o meglio,
non ha a che fare solo con quella; il ribrezzo che ci prende si deve alla
banalità delle sue spiegazioni, alla normalità con cui parla del suo lavoro,
alla semplicità con cui si crede solo una pedina di una partita già decisa in
partenza.
Quella che avrebbe dovuto essere una netta contrapposizione tra bene e
male si trasforma in un imponderabile esempio di mediocrità umana: alla
base della tragedia c’è la convinzione di non “aver potuto fare altrimenti”.
La Arendt è vestita da giudice all’inizio e da ebrea che si deve “rendere
riconoscibile” alla fine: la sua superiorità, inizialmente anche spaziale in
termini di posizione sul palco, è la nostra superiorità di fronte a chi
crediamo orribile, e vacilla davanti alla banalità della vita del suo
“nemico”.
Eichmann non ha agito per un ideale o per un obiettivo
grandioso, Eichmann è l’uomo debole che fa la scelta più semplice per
avere piccole soddisfazioni meschine, prima possibile. Eichmann è la
coscienza che si crogiola nel non avere alternative, è il trionfo
dell’opportunismo. Eichmann è tutto nel suo motto: “l’unico onore è non
tradire mai”.
Non c’è vera cattiveria, perché, dopo tutto, lui non ha ucciso nessun essere
umano, lui ha “solamente” reso possibile che altri lo facessero. Eichmann è
l’uomo dei treni, dei numeri, delle liste, e, di fronte alla piccolezza dei suoi
ragionamenti, Hannah Arendt rimane senza parole e si aggrappa all’unica
speranza possibile: che non tutti gli uomini pensino di non poter fare la
differenza perché, in un modo o nell’altro, possono farla sempre.
“La vera dignità sta nel non sentirsi mai inutili.”