Corsa al Quirinale convitato di pietra all’assemblea Pd: Matteo Renzi lavora all’intesa con Bersani modello Jobs Act.


Tanto tuonò, che piovve. Matteo Renzi striglia la minoranza Pd all’assemblea Dem ma non c’è resa dei conti, non ci sono provvedimenti ultimativi, nessuno sfoggio pubblico dei conti delle vecchie segreterie del partito e – addirittura – nessuna conta sulla relazione del segretario. Niente di quanto sbandierato alla vigilia viene messo in atto. A parte le note frasi contro il rischio “palude” e i “diktat” di minoranza, la necessità di andare avanti sulle riforme. Perché? Nel dietro le quinte è già cominciato il lavoro del premier-segretario per trovare un’intesa nel Pd sul successore di Giorgio Napolitano al Quirinale: modello Jobs Act, intesa con la parte dialogante della minoranza, in testa Pierluigi Bersani. Renzi ne ha bisogno, non può fare senza e ora lo sa. Tanto che se n’è amaramente convinto anche Silvio Berlusconi, il partner del Patto del Nazareno che infatti, non a caso, proprio oggi rivendica un posto a tavola sull’elezione del presidente: “Non potrà essere eletto un Capo dello Stato che a noi non sembri adeguato all’alta carica che dovrà ricoprire”. All’ex Cavaliere non è bastato l’affondo di Renzi contro i fallimenti della stagione dell’Ulivo, frasi che all’assemblea Dem i suoi traducono come un no alla candidatura di Romano Prodi al Colle.

Le parole di Berlusconi soffiano gelo e agitazione sulla sonnolenta assemblea nazionale del Pd, riunita all’Hotel Parco dei Principi di Roma. Fino a un minuto prima, il tema dell’elezione del presidente della Repubblica, ‘nodo dei nodi’ della legislatura, era rimasto convitato di pietra della riunione, se si eccettua un breve passaggio del premier in apertura: “Non sono preoccupato. Questo Parlamento è in grado di eleggere il successore” di Napolitano. Sulle parole di Berlusconi, sono i due vicesegretari Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani che si affrettano a smentire: la scelta del prossimo presidente non è nel Patto del Nazareno “nel modo più assoluto”. Nonostante ciò, un’ombra resta sull’assemblea ma non disturba il clima generale. Piove ma non c’è tempesta. Perché?

“Nessuno nel Pd ha il coltello dalla parte del manico”, spiega un renziano doc nei corridoi del lussuoso hotel in zona Parioli a Roma. “Non ce l’ha Renzi e nemmeno la variegata minoranza”. Ed è questo il motivo per cui i “roboanti annunci della vigilia” non danno seguito ad alcuna resa dei conti, come Gianni Cuperlo fa notare al premier nel suo intervento. Le uniche scintille scoppiano quando Cuperlo e Gad Lerner accusano Renzi di non aver fatto parola dello sciopero della Cgil nella relazione iniziale. “Siamo eletti per rappresentare l’assemblea del Pd, non la Cgil”, risponde piccato il segretario. “Rispetto chi ha fatto sciopero, ma è finito il potere di veto delle piazze sul governo. E sono convinto che il Pd non sia la cinghia di trasmissione di nessuno…”. E poi naturalmente sono più che scintille con Stefano Fassina che accusa: “A me pare che il presidente del Consiglio cerchi giustificazioni per andare al voto anticipato…”. E ancora: “Non ti permetto più di fare caricature di chi è diverso da te…”. Applausi. Renzi ribatte, caustico: “Io non credo che qui ci siano caricature, come non credo che ce ne siano quando vengo paragonato alla Thatcher o quando si dice che il mio è un regime fascista o che il governo segue la linea della troika… E’ bello approfondire, ma a un certo punto si decide e io non sono affezionato ad un principio di obbedienza ma un partito che sta insieme in base ad un principio di lealtà…”. Quanto alle elezioni: “Per me sono nel 2018”.

Scintille, senza fuochi. Pippo Civati nemmeno interviene, per dire (“Non parlo del nulla…”, dice). Massimo D’Alema è assente polemico: “Diserto l’assemblea, non accetto minacce e sanzioni”. Rosi Bindi in mattinata preferisce la tv, è ospite a Sky da Maria Latella, dove difende il suo Ulivo dalle critiche di Renzi: “Fa un giudizio sommario degli ultimi 20 anni. Stia attento a non perdere l’elettorato di sinistra…”. Pierluigi Bersani è assente giustificato: ha problemi alla schiena. Ma è a lui e alla parte dialogante della minoranza che Renzi pensa quando concede all’assemblea l’unico passaggio sul Quirinale: “Può darsi che questa sia l’ultima assemblea nazionale in cui salutiamo Napolitano, non so, ma lo ringraziamo per questi nove anni di mandato…”. Gli applausi prolungati lo interrompono. Lui riprende dopo parole di rito: “Al momento il presidente è Napolitano”. Ma, quando sarà il momento, “io non sono preoccupato. Questo parlamento è nelle condizioni di eleggere il successore. Il fatto che nel 2013 abbia fallito il colpo, non significa che oggi non sia stata imparata quella lezione. Io non ho alcun dubbio che, quando sarà il momento, il Pd andrà a parlare con le altre forze politiche e individuerà il garante istituzionale dei prossimi anni”.

L’idea è di stringere con Pierluigi Bersani e il grosso dei suoi un’intesa che eviti strappi dolorosi e magari irrecuperabili sulla presidenza della Repubblica, convocando anche un’assemblea del Pd sul tema del Colle. Un’intesa modello Jobs Act, la legge delega licenziata in via definitiva dalla Camera proprio grazie all’accordo con Area Riformista, componente di minoranza che fa capo a Bersani, Epifani, Damiano, oltre che al capogruppo Pd a Montecitorio Roberto Speranza. Sarà di certo un caso, ma le parole di Berlusconi sul successore di Napolitano sono arrivate all’assemblea Dem proprio mentre dal palco interveniva Speranza, capofila della nuova possibile intesa con il premier-segretario. L’ex Cavaliere è nervoso per questo, ma in fondo, dicono i renziani, “anche lui sa che l’accordo nel Pd è una strada obbligata per tutti…”. E qualcuno all’Hotel Parco dei Principi spiffera il nome di Pier Carlo Padoan per il dopo Napolitano.

E’ presto per i nomi. Ma non per dire no a Romano Prodi, fumo negli occhi del Patto del Nazareno. E’ per questo che Renzi oggi prende di mira l’operazione “nostalgica” sull’Ulivo, nata nelle ultime settimane per spingere il nome del Professore al Colle contro il Patto del Nazareno (dicono i rumors). “Io contesto che ci sia un racconto mitologico e nostalgico dell’Ulivo quando quell’esperienza politica è stata sostanzialmente mandata a casa da nostri errori e nostre divisioni. Contesto l’idea di fare un santino senza riconoscere la responsabilità di quanto accadde nell’ottobre del 1998″, tuona Renzi. E allora avanti con l’Italicum, legge per il maggioritario secco. Dicono che addirittura Renzi sia disposto a mettere da parte la clausola di salvaguardia che ne sposta l’entrata in vigore a gennaio 2016 e che prevede il Mattarellum come norma transitoria. Ora nella sua testa ci sarebbe l’Italicum come unica via da praticare, fino all’approvazione definitiva. Anche a costo di rinunciare alla chance del voto a primavera.