Ci sono scene di demente violenza. In una, per dire, un uomo, abita vicino a Spello, nel nulla della provincia italiana, piglia un gatto appena nato e lo sbatte contro il muro. Poi un altro. Poi un altro. Stoc. Stoc. Stoc. “Scaraventa un gattino contro un muro di mattoni. Come una palla, come una mela. Il rumore è atroce, sa di morte”. Come si fa a infierire sull’innocente? Certo, è certo, non c’è premio né giudizio; solo tempo, carne che si rode, gli oceanici sbadigli del niente.
In un’altra, a morire sono dei ragazzi. Macchine; sera; incidente; clangore orrendo; lamiere schizoidi; sangue; “un manichino senza grazia, svuotato d’anima”. Il dolore elettrizza il tutto: ciò che era e sarà, gli inconsapevoli e gli amati, perfino la rugiada che adornerà il mattino, tra poco. “Dobbiamo, come equilibristi, vivere abbracciati a precipizi”, scrive Daniele Mencarelli. Il suo ultimo romanzo, il terzo, Sempre tornare (Mondadori, 2021), è un repertorio di inferi – ma anche di amori stanati d’improvviso, una promessa, come sempre, sempre troppo abbondante per stare in questa vita. La struttura è semplice: Daniele, diciassettenne, nel 1991, è con gli amici sulla Riviera Romagnola, in discoteca. Fa caldo, è estate, e Daniele, per l’effetto domino delle ennesime bravate, perde tutto: amici, soldi, desideri. Così, decide di tornare a casa, ad Ariccia, a piedi. Da Misano Adriatico a Roma. A piedi. Come fosse una rivelazione, il colpo da biliardo di un folle, tra spavalderia e francescanesimo. Il viaggio, ovviamente, sarà durissimo; l’esito ha a che fare con Stand by me più che con On the road. Si vive perché si ha sapienza di morte; perché si sperimenta il nulla, quello che ti porta a un soffio dalla morte, per intuire il tutto.
“Siamo figli del Tutto, o figli del Niente. Da una parte Dio, dall’altra il Caos. Ma questo non si può dire”.
Così dice Daniele, da subito. E subirà i sussurri del Niente, la dolce morfina del crollo. Per sopravvivere al viaggio – dove si cristallizzano rapporti fugaci, tra le ombre, in controsenso; dove si assiste, con orrore, a relazioni che si sbriciolano come bicchieri di cristallo; dove l’uomo s’imbarbarisce a una solitudine vile, senza sollievo – bisogna imparare a chiedere aiuto. Acqua. Cibo. Un posto dove dormire. Per fugare la vergogna, per vincersi, bisogna imparare a essere umani, a carpire una qualche fratellanza. Il romanzo, così, insegna a mendicare, dice che siamo tutti come il pellegrino russo, i cui “beni terrestri” non sono che “una bisaccia sul dorso con un po’ di pane secco” e “la Sacra Bibbia. Null’altro”. Semmai, qui, l’annientamento è più letale: il pane non c’è – cosa significa essere ospiti, stare limpidi nell’ospizio del mondo? – e Dio si raccatta per strada, nel brillio del mattino, in una nube di zanzare, nella fattoria che va a fuoco, in chi si industria a preparare un letto allo sconosciuto, nel dolore grigio, basso, che fa tutto iniquo, tutto inebetisce, benedizione bastarda.
Mencarelli è poeta, e tale resta. I primi due romanzi sono ambientati in spazi chiusi: un ospedale pediatrico – il “Bambino Gesù”, in La casa degli sguardi – un reparto psichiatrico – in Tutto chiede salvezza. Luoghi di clausura – dunque di resurrezione. In Sempre tornare – specie di Odissea da tasca, con Lotofagi ovunque, il velenoso nettare dell’oblio – lo spazio è aperto, è il mondo. Ma il mondo è l’autentica prigionia, l’autentica gioia: per questo, il ritorno a casa, alla madre. Con pazienza amanuense, a ritroso, Mencarelli ripete la sua vita – questo è la scrittura: dare olio al corpo morto, inclinarsi nel sepolcro, in attesa che risorga, perché Dio, si sa, è l’agguato.
Il tuo romanzo insegna a mendicare, a chiedere aiuto. Cosa vuol dire?
Pensiamo di sapere tutto, persino di conoscere il perimetro dell’animo umano, poi accade qualcosa di imprevisto e ci riscopriamo dentro la dismisura della realtà, la dismisura dell’amore. Esiste un livello, di noi e degli altri, che scopriamo solo nel momento in cui ci viene richiesto dagli eventi, è quello che accade al giovane protagonista del romanzo. È costretto a chiedere aiuto, non ha da mangiare e bere, dove dormire, questa condizione lo spoglierà di ogni vergogna possibile, di ogni struttura posticcia. E l’aiuto gli verrà concesso. È questa la vera rivelazione. L’aiuto gli verrà concesso e lui diventerà a sua volta compagno delle vite che lo accoglieranno lungo il viaggio. Riscoprirsi mendicanti, cercatori, dentro il medesimo viaggio. Dentro un desiderio d’umanità, e unità, possibile da realizzare. Ingenuità o speranza? Ognuno trovi la sua risposta.
Cosa significa sentirsi un ospite, irrichiesto, improvviso, forse evangelico, di certo un ‘peso’? Che valore ha l’acqua offerta da un estraneo?
La sete è la bestia delle bestie. Non si può non tornare alla dismisura della realtà, alla sua dimensione concreta, feroce, e al contempo alla sua essenza simbolica, teatrale. La sete di Daniele troverà eroi pronti a soddisfarla, troverà anche chi si volterà dall’altra parte, stringendosi alla propria paura. Daniele a sua volta incapperà in tanti assetati, d’amore e rimpianti, d’eroina e cibo, la sua presenza in alcuni servirà da risveglio, in altri non cambierà nulla, come un mancato avvenimento.
“Gli animali sanno. Per questo non parlano”. Cosa significa?
Da bambino, dentro il nero vivo, lucido, dei cani con cui giocavo, mi sembrava sempre di scorgere qualcosa, una specie di impotenza, e di grande, infinità pietà, come se ci volessero dire qualcosa nell’impossibilità di farlo. Forse loro hanno la risposta all’unica domanda che conti: Dio o il caos? Loro erano assieme a noi nel giardino primordiale, e lo ricordano con maggior nitore di noi che ci siamo caricati di civiltà e storia. E se così non fosse, resta la pietà. Agli animali spesso facciamo pena, noi e la nostra bestia.
“Deve esistere una giustizia ultima. Una voce definitiva”. Cosa significa?
A parte i bisogni e i desideri primari, animali, senza questo traguardo tutto mi appare svuotato di senso. Le piccole grandi seduzioni del mondo mi irretiscono per un tempo sempre minore. Sono nato per cercare, cercarmi. Tutti noi siamo nati per questo. A quarantasette anni inizio a scorgere un traguardo, spero il più tardi possibile, ma l’unico traguardo certo che ci è concesso: la morte. Presto saprò chi sono. È l’ultimo verso di Borges e del suo Elogio dell’ombra. Prima, però, resta da vivere questa scommessa, in un certo senso persa in partenza: cercare. Non per me, non mi voglio così bene, ma per quello che amo immensamente.
All’inizio del romanzo ti poni nel pieno di una dicotomia. O Tutto o Niente. O esiste il Tutto, o tutto è Niente. Direi, però, che per riconoscere il Tutto il Niente va attraversato, abitato, a occhi forati. Non credi?
Perché di dicotomia si tratta: una terra di mezzo non esiste. Questa domanda affonda come un ago nel mio sguardo. Chi cerca, soprattutto quelli che cercano con lingua biforcuta, dentro la realtà e dentro la parola, in verità fuggono dalla terra che costantemente si apre ai loro occhi. E questa terra è il nulla. Un nulla che in loro si palesa attraverso la visione di quel che è in assenza di una ragione ultima. E le case son case, e gli alberi son alberi, è un verso del poeta della mia vita, di tutte le mie vite. Camillo Sbarbaro. Desidero la luce, perché nella mia mente appare costantemente il dio niente.
Dedichi il libro agli sconosciuti, ma infine il protagonista del libro, in una specie di anabasi, torna alla famiglia: la madre che accudisce le rose come figlie. Viaggio dalla dissipazione alla certezza. E tutti gli incontri fatti svaniscono, come un vaso di vetro che si infrange… E allora… cosa volevi dirci? E poi scrivere non è questo continuo tradimento?
È vero, ma alla certezza della madre arriva dopo essersi spogliato grazie agli sconosciuti. Ognuno toglie un brandello delle sue illusioni, seduzioni, si ritrova nudo con il solo desiderio di essere accolto da chi lo ha generato. Dal nulla alla luce. Il ritorno alla madre, il Sempre tornare del titolo, a questo allude, almeno qui sulla terra poter fare ritorno a chi ci ha dato la luce. In questo senso, la madre è divinità in terra, sul suo amore, almeno io, posso edificare mondi interi.