Gli incendi continueranno a erodere la foresta finché non cesserà l’espansione della frontiera agricola, perseguita dai coloni e dalle imprese agroindustriali
Risale al 2019 – complici la siccità e un decreto di Evo Morales, che ampliava gli incendi autorizzati per recuperare aree di selva alla coltivazione – il più grande disastro naturale della storia boliviana, quando, tra luglio e ottobre, andarono in fumo 5,4 milioni di ettari di foreste e savane. Molto di più dei due milioni bruciati simultaneamente dal lato brasiliano. Se nel 2020 gli incendi hanno interessato quattro milioni di ettari, al 15 ottobre scorso sono 3,4 milioni gli ettari bruciati. Il 94% nei dipartimenti di Santa Cruz e del Beni, in gran parte in aree cedute dal governo a gruppi di coloni.
Se raffrontiamo il tutto con l’Italia – dove nel 2021 sono bruciati 150mila ettari di verde – e considerando che la Bolivia è quasi quattro volte il nostro Paese, le proporzioni degli incendi risultano assai maggiori; e si capisce perché essa è da vari anni il Paese con la deforestazione pro capite più alta al mondo.
La conca amazzonica comprende Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Perù, Venezuela, Guyana e Suriname, con in più la Guyana francese. Se si mantiene l’attuale alto indice di deforestazione, la degradazione del suolo e gli incendi che si sono registrati negli ultimi anni, la maggiore selva tropicale del pianeta potrebbe raggiungere il punto di non ritorno prima del 2050, perdendo fino a un 70% della sua vegetazione originaria e convertendosi in un’area praticamente desertica. È quanto ha recentemente denunciato il Science Panel for the Amazon, che ha richiamato l’attenzione mondiale su quelle zone che si trovano al sud dell’Amazzonia e vanno dalla Bolivia fino all’Atlantico, passando per gli Stati brasiliani di Rondonia, Mato Grosso e Pará. Dove grandi porzioni di foresta hanno cominciato, negli ultimi anni, a emettere diossido di carbonio (CO2), anziché assorbirne.
In Bolivia la causa è la continua espansione della frontiera agricola perseguita dai coloni e dalle imprese agroindustriali, estranei alle popolazioni indigene. E si spiega con il fatto che un ettaro di sistema agroforestale, nella selva amazzonica, può generare una rendita di circa mille dollari all’anno, cifra di molto superiore ai guadagni consentiti dall’attività di allevamento del bestiame e di coltivazione della soia, che rende dai cento ai duecento dollari.
Oggetto degli incendi sono in genere le terre, spesso protette quando non appartenenti a parchi naturali, assegnate dagli enti governativi boliviani a coloni provenienti dagli altipiani andini. Privi di quelle conoscenze, di quei rapporti con la natura, con gli ambienti, con gli spazi e con le culture, che sono patrimonio degli indios dell’Amazzonia e del Chaco boliviani.
Tra i suoi scarsi risultati positivi, la Cop26 può annoverare una dichiarazione sulle foreste e l’uso della terra che è stata firmata da 141 Paesi. Tra i firmatari troviamo il Brasile di Bolsonaro, mentre non appare la Bolivia, e manca pure il Venezuela. Con la loro adesione, le 141 nazioni del pianeta si sono impegnate a frenare e a invertire la deforestazione entro il 2030, grazie a un finanziamento di 19.200 milioni di dollari di fondi pubblici e privati. In essa si riconosce che i popoli indigeni e le comunità locali, che dipendono dalle foreste per il loro sostentamento, svolgono un ruolo chiave nella loro gestione, laddove “nessun denaro o politica può fermare il cambiamento climatico”.
Numericamente pochi rispetto alla maggioranza quechua e aymara, gli indigeni dell’oriente dell’Amazzonia, del Chaco e della Chiquitania boliviani hanno avuto il merito di mettere al centro la questione delle terre indigene fin dalla loro prima marcia di protesta nel 1990. Da allora, hanno marciato altre undici volte, l’ultima tra agosto e settembre scorsi, capeggiati dal sessantottenne Marcial Fabricano Noe, indio moxeño di lingua arawak, che si batte per i diritti dei popoli delle terre dell’Amazzonia e del Chaco boliviani, abitate da trentaquattro dei trentasei popoli originari riconosciuti dalla Costituzione.
Ciò ha costretto i governi a riconoscere quei territori come comunità di origine. Ma con l’andare del tempo queste realtà sono state gradualmente esautorate di competenze, di potere e di reale controllo sugli spazi, con la conseguenza che parte di quelle terre sono state invase da colonizzatori estranei.
Sarà anche utile ricordare che l’ultima marcia è nata perché gli indigeni lamentano la completa mancanza di riconoscimento dei loro diritti. Cosa che potrebbe apparire perfino paradossale visto che si parla di Bolivia, dove da tempo opera un governo pro-indigenista che si richiama al rispetto dei valori della Pacha Mama, cioè della “Madre Terra”.
La realtà è invece un’altra: parla di un esecutivo che continua le politiche di sviluppo “estrattiviste” che già hanno caratterizzato gli anni di Morales, il cui esito compromette inevitabilmente gli equilibri ambientali. Non stupisce più di tanto che il governo abbia ignorato le ragioni dei marciatori, e che, a tutt’oggi, continui a negare quel canale di dialogo che gli indios dell’oriente boliviano attendono pazientemente da più di un mese.