“Una democrazia può funzionare solo a condizione che un’organizzazione indipendente di esperti renda comprensibili i fatti non visti a quelli che devono prendere le decisioni”.
No:
“è impossibile per gli esperti assicurare un monopolio di conoscenza utile a regolare gli affari comuni. Nella misura in cui diventano una classe specializzata, vengono esclusi dal conoscere le esigenze che dovrebbero soddisfare”.
Le opposte visioni espresse negli anni Venti da Walter Lippmann e John Dewey, rispettivamente il giornalista e il filosofo più autorevoli del Novecento americano, esprimevano con pragmatica chiarezza i termini di una questione cruciale delle nostre società moderne: lo statuto e la funzione dell’intellettuale. Senza ricorrere al consiglio degli “esperti” le società democratiche sono in grado di fornire risposte ai problemi da risolvere? Affidandosi agli “esperti”, non si mette a rischio il principio ugualitario che dovrebbe essere alla base di ogni società democratica? È indispensabile per spiegare ai non addetti ai lavori cose per loro troppo complicate? O piuttosto a svolgere quella condizione “riempitiva” individuata col proverbiale spirito da Kurt Vonnegut che ne parlava come “paglia da imballaggio in uno scatolone pieno di falsa gioielleria per impedire che se ne senta il tintinnio”?
Poco fiducioso nelle facoltà umane come un De Maistre, Lippman pensava che la democrazia potesse essere salvata solo dal un gruppo di esperti, Dewey inseguiva invece un ritorno del “public” attraverso un piano educativo a largo raggio. A differenza di Lippmann, l’erede del pensoso individualismo democratico emersoniano era convinto che la democrazia dovesse per forza implicare un alto livello di condotta personale. A ben vedere, è la stessa differenza tra il Platone che pensava a una classe di sapienti selezionati tra i “custodi” (il governo dei saggi) e un realista come Protagora, convinto che la salute della democrazia dipendesse dalla capacità di mettere più persone possibili in condizione di prendere parte alla cosa pubblica. “L’ambiente è complesso, si chiedeva Dewey, le capacità umane limitate. È possibile costruire un ponte tra di essi?”.
A un secolo di distanza dal fondamentale “dibattito” Lippmann-Dewey, sappiamo bene che ad aver trionfato è stato il modello Lippmann, ovvero un elitismo liberal-progressista messo tra l’altro ripetutamente a dura prova in questo inizio millennio. E non per nulla Lippmann, opinionista legato a vari staff presidenziali (da Wilson fino a Kennedy, dopo aver avuto con Roosevelt alterni rapporti), è considerato nell’ambiente culturale italiano assai più del “pedagogo” Dewey, pragmaticamente escluso dal salotto buono ovvero crociano della filosofia. Il fatto è che a differenza di quanto accadeva col tiranno antico, il quale basava il suo potere su una minoranza riconosciuta da pochi e imposta a molti, le società novecentesche sono di massa. Per questo gli “specialisti” sono diventati indispensabili per legittimare la democrazia come il più efficiente (o churchillianamente il meno peggio) tra i sistemi di governo. Per questo Kojève sentenziò che l’intellettuale può parlare col tiranno…
Perché non basta prendere il controllo di una società, occorre pure che la pubblica opinione venga in modo o nell’altro persuasa che quel governo è serio, saggio e – in definitiva – inevitabile, e certamente da preferirsi a qualsiasi alternativa concepibile. Le nostre costituzioni saranno anche fondate sul lavoro, ma le nostre democrazie sono ancora fondate su una classe dirigente intellettual-manageriale solo per schematica convenzione definibile ancora “élite”, vittima essa stessa di un degrado culturale, dimostratasi incapace di capire che senza senza diffusione della conoscenza qualsiasi democrazia rischia di andare a farsi friggere.
Gaetano Mosca aveva già osservato: la prima preoccupazione di chi entra nel circuito degli eletti non è quella di affrontare i problemi della comunità ma di restare dove si trova. È esattamente ciò cui abbiamo assistito in Italia negli ultimi decenni: l’autoperpetuazione fino all’arroccamento di una classe dirigente solidale col mondo dell’informazione e assai presente nei talk show, pronta ad indicare, scambiando clamorosamente la causa con l’effetto, il mondo dei social come origine di tutti i mali. Un gruppo di potere che a ragione Castoriadis negli anni Ottanta definiva “burocratizzata”, la cui funzione è sostanzialmente gregaria nei riguardi di un ceto politico del quale esso stesso fa parte e che invece di riflettere sui propri errori e sulle proprie chiusure non sa far altro che agitare nei confronti di chi la mette in discussione l’accusa più ossessiva, demonizzante e generica tra quelle in circolazione: populismo. Senza voler fermarsi neppure un momento a ragionare sul fatto che a diffondere la bufala finora più gigantesca del millennio – quella relativa alle armi segrete di Saddam Hussein di cui paghiamo ancora le conseguenze – sono stati proprio quegli organi di informazione che tanto si ergono a unici osservatori attendibili della realtà. Un laboratorio di potere socio-mediatico da cui è inevitabilmente fuggito il suo simmetrico rovescio, secondo le regole del più classico bianco e nero: una giovane generazione politica clamorosamente sprovvista di strumenti culturali adeguati (il fatto che questa legislatura sia quella a più alta percentuale di laureati invece che generare entusiasmi dovrebbe far riflettere sullo stato delle nostre università…).
Di questa classe dirigente che ha avuto in personalità come Ciampi (quello per il quale il declino del Paese era solo “retorica”) e Napolitano (quello che non aveva sentito nessun “boom” elettorale) i suoi plurilodati interpreti quirinalizi, Sabino Cassese è una delle stelle più splendenti. Ottantasei anni, ex ministro per la funzione pubblica del Governo Ciampi, ex docente di diritto amministrativo, membro emerito della Corte costituzionale, ex membro di numerosi cda (da Autostrade alle Generali), fondatore per la ricerca sulla pubblica amministrazione (IRPA), protagonista di numerosi commissioni ministeriali, direttore di vari progetti al Consiglio Nazionale delle Ricerche, sempre tra i papabili per la presidenza della repubblica, collaboratore fisso di quotidiani, assiduo frequentatore dei nostri talk show televisivi, dove si propone come autorevole terminale mediatico della coscienza istituzionale, un po’ come Cacciari di quella de “sinistra”.
Evidentemente non ancora soddisfatto della sua missione edificante, il professor Cassese ha pensato bene ora di spiegarci una volta per tutte cosa sia l’intellettuale. E siccome, come sosteneva Hitchcock, la scelta del cattivo è fondamentale per la riuscita di un film, l’incipit del suo Intellettuali (Il Mulino, 2021) non poteva essere più esplicito:
“Tempi bui. Sia per gli intellettuali , sia per i mezzi di cui si valgono per farsi ascoltare. Se uno vale uno, l’uno vale l’altro, non c’è differenza tra il sapiente e l’ignorante. Se tutti possono dialogare con tutti, se Internet dà voce a due terzi degli abitanti del pianeta, se i media tradizionali (one to many), di cui di solito gli intellettuali si valgono per raggiungere il proprio pubblico sono in crisi, chi ascolta gli intellettuali?”.
Questo è il problema. Non perché la questione culturale in questo Paese sia diventata una questione grande come una casa; non come mai il dibattito politico si sia così miseramente impoverito; non perché la comunicazione social sia così sguaiata e ignorante. No, il problema, per Cassese, è che gli intellettuali non li ascolta più nessuno. Perché un intellettuale – questa la premessa di tutto – è tale solo se c’è qualcuno che lo ascolta ed è accettato come tale.
Ma chi sono questi intellettuali? Nel 1997, l’americana Susan Sontag rispondeva così all’ennesima inchiesta sugli intellettuali e il loro ruolo:
“Per me, intellettuali significa essenzialmente partecipazione conferenze, tavole rotonde e dibattiti su riviste sul ruolo degli intellettuali nei quali noti intellettuali sono d’accordo tutti sull’inadeguatezza obsolescenza disgrazia, irrilevanza e imminente scomparsa della stessa categoria cui loro appartengono”.
Appunto. A dispetto di ogni superficiale evidenza, al di là di ogni banale comune denominatore (lo studio, per esempio), di ogni tentativo di definirli (Regis Debray negli anni Settanta provò perfino a contarli, in Francia!) “intellettuali” è termine talmente vago e talmente abusato da risultare ormai come uno di quei vecchi soprammobili ereditati che non si buttano via per affetto ma se osservati da vicino ci si chiede che senso abbiano…
Per Cassese, invece, no. Lui all’intellettuale cuce il vestito prendendo a modello se stesso, con tanto di compiti, responsabilità e vizi, il primo dei quali è “quello dello scetticismo, che nega la funzione stessa dell’intellettuale”. E noi che avevamo sempre pensato che se una cosa una deve contraddistinguere ogni pensiero critico degno di tal nome è proprio lo scetticismo! Eravamo molto ingenui, o forse molto antiquati, perché come ci viene spiegato,
“da ultimo il lavoro dell’intellettuale è diretto allo Stato. L’intellettuale assicura disponibilità di dati di analisi, di supporti tecnico, alle istituzioni. Basti ricordare il brain trust di Franklin Delano Roosevelt o le cosiddette task force italiane. In questo senso, l’intellettuale fa parte della classe dirigente anche se non in forma organizzata, in quanto portatore di una competenza”.
Dice così Cassese – preferendo comprensibilmente citare il brain trust di Roosevelt piuttosto che quello neocon di George W.Bush – tanto per far capire con esempi quale sia il suo posto: accanto a chi comanda. Basta con questi intellettuali o sedicenti tali che si propongono – testuale – non come “annunciatori di speranze” ma come “araldi della disperazione”, pericolo che il Nostro vede particolarmente sviluppato in Italia, dove “gli intellettuali hanno scelto sempre un atteggiamento sdegnoso verso la realtà (rifiutandola), optando per la critica distruttiva, la mera critica di ingiustizie, la minaccia di catastrofi, l’atteggiamento piagnone”.
Nel saggio, Lippmann non viene citato, ma non c’è dubbio alcuno: è quello liberal-padronale il modello di riferimento. Senza nemmeno immaginare che così facendo, rifiutando per principio lo scetticismo in favore del potere istituzionale, il rischio è quello di apparire proprio per quello che si dichiara di non essere, un ideologo, nel senso in cui lo concepiva Althusser: un intellettuale cioè che fa uso politico delle proprie competenze, che poi, gira e rigira, non è troppo distante da come lo concepiva la filosofia comunista togliattiana: noi non informiamo, noi educhiamo.
L’intellettuale, aggiunge poi Cassese, non deve stare necessariamente sempre sul campo di battaglia. Gli fa bene di stare di tanto in tanto sulla “turris eburnea”. L’avevamo francamente intuito, ma l’autore per spiegarcelo tira in ballo (facendo tutt’uno di artista e intellettuale) il povero Borges di Altre inquisizioni:
“Il vero intellettuale rifugge dai dibattiti contemporanei: la realtà è sempre anacronistica”.
Non cita invece Gyorgy Lukàcs, l’intellettuale che più ambiguamente e più influentemente di ogni altro ha operato nel secolo scorso all’ombra del potere, quello che in Storia e coscienza di classe, scrisse che quando si verifica un contrasto tra la teoria e i fatti, si può senz’altro sentenziare con Fichte ‘peggio per i fatti’. Non lo cita, Cassese, ma l’impressione è che tutto sommato non sia poi così lontano…