Leggo oggi su Domani, e già qui fa ridere, un pezzo ch’è sinteticamente intitolato “In tempi di green pass è troppo facile farsi passare per filosofi”. Parentesi: ve lo ricordate Domani? Sarebbe quel giovanissimo giornale, dal design civettuolo, diretto da Stefano Feltri, anche detto “quella cima di”, e prodotto niente di meno che da, proprio lui, l’ingegnere C. De Benedetti, alias “la tessera numero 1 del PD”, già noto al pubblico per avere firmato in passato numerosi altri prodotti d’alta pasticceria, almeno equivalenti per successo, tra i quali sarà sufficiente ricordare la Repubblica l’Espresso.

L’articolo in questione (Domani, 26.10.21), si diceva, è firmato da Raffaele Alberto Ventura, che la apposita etichetta definisce, in un impeto di modestia, “scrittore”, à la Dickens o alla Pasolini, ma anche come Federico Moccia, oppure, perché no, come Fabio Volo; insomma, una famiglia assai variegata. In realtà, Ventura sarebbe anche, e forse prima di tutto, un filosofo, in quanto passato alla “storia”, o, per meglio dire, alla “cronaca”, come l’inventore d’una teoria della “classe disagiata”, in perfetto stile “tardo-weberiano” andante, e che ci rammenta con chiarezza le ragioni per cui, già in tempi non sospetti, Weber era stato definito “il Marx della borghesia”. Difatti, tale teoria, così come il conseguente libro che nel 2017, alla sua uscita, effettivamente andava piuttosto di moda nominare (più che leggere), altro non è che la fenomenologia, fedelmente descrittiva, del punto di vista d’una generazione, quella della classe media declassata dei trenta-quarantenni precari d’oggi, analizzata da una prospettiva ch’è squisitamente “piccolo borghese”. Ah, la décadence!

Sarebbe inutile, tuttavia, insistere ulteriormente su questo tasto, giacché, come dice il Nostro nel medesimo articolo, quando Wikipedia (sic!) lo ha definito “filosofo”, è stato lui stesso ad adoperarsi per rimuovere, e cito, questa “qualifica pomposa”. Una dichiarazione che sta a metà tra il modesto e la vergogna, cringe quanto basta e, forse forse, anche un poco tendente alla diffidenza, un po’ come quelli che bevono da soli perché, com’è uso dire, “o son ladri, o son spie”.

È piuttosto soddisfacente, giunti a questo punto, potersi permettere il lusso di non dovere per forza riassumere l’articolo in questione. Innanzitutto perché, per gli appassionati del genere, è facilmente reperibile in luoghi ad esso più degni. E, secondo, poi, anche perché non vogliamo contribuire, sia pure nel nostro piccolo, a rimarcare, sia pure incidentalmente, quello che ormai è da tempo divenuto un vero e proprio topos nel dibattito filosofico, specialmente quello pubblico: e cioè l’insana passione per il “tiro al piattello” che certi pennivendoli scoprono d’avere, all’improvviso, non appena un filosofo compare sulla scena, e che, per estensione, finisce sovente per sfogarsi sulla pratica filosofica in toto, giudicata “risibile” nel migliore dei casi, nei peggiori marchiata come immorale, inutile o perniciosa; poi, sia chiaro, sappiamo benissimo, fin dai tempi di Socrate e giù fino ad Heidegger, che questi sono tutti complimenti, specialmente quando provengono da certi luoghi del dibattito abitualmente adibiti al ruolo di cloache pubbliche. La cosa che, invece, ci preme sottolineare, e stiamo finalmente arrivando al punto, è quello strano fenomeno socio-antropologico di “contorsionismo professionale” tale per cui i filosofi, spesso e volentieri, si rivelano essere dei veri e propri maestri nell’arte spietata degli “odiatori di loro stessi”, in un caso più unico che raro.

Un caso piuttosto emblematico di questo tipo di masochismo, oramai tipico della categoria, può essere consideratala recente petizione, firmata da circa 100 docenti di filosofia, e che è stata intitolata, molto eloquentemente, “Non solo Agamben”. Questo “piccolo manifesto”, apparso su Il Fatto Quotidiano (16.10.21), è praticamente uno scritto ad personam, che, con lo scopo palese del dissociarsi dalle ormai notissime tesi di Agamben sulla gestione politica della pandemia, diviene tuttavia il pretesto perfetto per “attaccare il poeta, quando non si può attaccare la sua poesia”, quindi trasformando la figura di Agamben stesso in una specie di “capro espiatorio”. Come qualcuno ha già notato altrove, ad esempio in Agamben e il mucchio selvaggio (18.10.21), questo genere di documento sarebbe stato legittimo, qualora i professori (curiosamente, per la maggior parte provenienti d’ambienti d’ispirazione analitica) avessero preso posizione a favore delle politiche sanitarie del governo, e non le distanze contro la singola figura di quello che, piaccia o non piaccia, è l’autore filosofico italiano più conosciuto e considerato all’estero, tra i più originali interpreti della nostra tradizione. Particolarmente condivisibile è il commento stilato dal filosofo Luca Illetterati, su Le parole e le cose (19.10.21), che sottolinea la totale infondatezza del “tono scandalizzato” da cui la lettera muove nel denunciare l’audizione dello stesso Agamben in una commissione del Senato sulla questione, appunto, del Green Pass;sempre Illetterati, le cui posizioni in merito alla questione delle politiche sanitarie del governo sono tutt’altro che in linea con quelle di Agamben, prosegue poi criticando aspramente questo vizio d’alcuni di “volere assegnare pagelline e patentini di filosoficità” così arbitrariamente, ricordando, con Hegel, che il peggior difetto della categoria resta sempre quello di voler “spiegare al mondo come il mondo dovrebbe essere”.

Che mai avrà fatto Agamben per meritarsi tutto questo? È piuttosto noto, anche al pubblico di quelli che ormai è prassi definire i “non addetti ai lavori”, un suo fatale intervento, firmato assieme all’altrettanto autorevole Cacciari, comparso su Il diario della crisi de l’IISF, e risalente ormai a più di tre mesi fa. Il titolo, in sé piuttosto neutro, cioè A proposito del decreto sul Green Pass (26.7.21), celava, in realtà, una presa di posizione assolutamente precisa, per quanto garbata nel tono, e cioè la denuncia del carattere “discriminatorio” della tessera suddetta, e, soprattutto, il rischio manifesto che avrebbe prodotto (e, come vediamo, sta producendo) per la “tenuta democratica” delle nostre istituzioni, sul piano nazionale ma anche su quello europeo. Lo stesso Agamben, d’altra parte, aveva già apertamente sostenuto questa tesi nella sua rubrica Una voce, in un pezzo molto più schierato, e molto eloquentemente intitolato, appunto, Cittadini di seconda classe, dove, al paragone tra “tessera verde” e “passaporto interno” dell’ex-URSS, s’era invece preferita una forte analogia, più “politicamente scorretta” e quindi con meno pelo sulla lingua, tra i cittadini di seconda classe creati dal decreto-Green Pass e gli ebrei, portatori della famigerata “stella gialla”, durante la discriminazione delle “leggi razziali” nazi-fasciste.

Nonostante il sottilissimo intelletto di Massimo Cacciari sia spesso presente (e per fortuna!) in alcuni dibattiti televisivi, a denunciare, a volte anche comprensibilmente provato, il pericolo della “in-voluzione democratica” che stiamo ormai tutti vivendo, essendo che questa ha smesso d’essere un mero “rischio” almeno dopo i fatti scandalosi avvenuti a Trieste recentemente, e nonostante questi cerchi spesso di spiegare come, se si fa dell’emergenza un “metodo di governo”, allora l’emergenza cessa d’essere tale, e il panorama è quello tristemente noto dello “stato d’eccezione” permanente, che tutti sappiamo essere stato storicamente l’anticamera dei peggiori orrori totalitari del secolo scorso, la attenzione dei filosofi “odiatori professionisti”, tuttavia, resta concentrata prevalentemente sulla sola figura di Agamben, vittima di quei processi di “sacralizzazione” della vittima sacrificale che, per un qualche scherzo paradossale del destino, lui stesso ha descritto e studiato meglio di chiunque altro.

Per dirla in parole povere, non abbiamo avuto nessun manifesto, firmato dai “filosofi”, e che fosse intitolato “Non solo Cacciari”, o persino “Non solo Vattimo”, quando anche l’autorevolissimo teorico torinese del cosiddetto “pensiero debole” – da tempo intelligentemente autocritico in ciò che concerne il fallimento del progetto d’emancipazione “post-moderno” e ripiegato su posizioni da lui stesso definite di “comunismo ermeneutico” – ha manifestato le sue criticità nei confronti della forte connotazione “tecno-cratica” di tali politiche socio-sanitarie; oppure, perché no, pure un manifesto intitolato “Non solo Fusaro”, anche visto che il filosofo torinese è, esattamente come Agamben, in primissima linea nella sua precocissima denuncia delle implicazioni finanziarie e capitalistiche della “emergenza sanitaria” cosiddetta. Forse che Fusaro non ha scritto abbastanza per essere considerato una voce autorevole all’interno di questo dibattito? Sicuramente no, come, altrettanto sicuramente, è più facile punirne uno, il più scomodo ed emarginato, e silenziare tutti gli altri, per questo motivo o per quell’altro, chi perché troppo in un senso, chi perché troppo poco in un altro senso. E allora ecco che siamo arrivati a riportare in auge anche l’ultima nostalgia fascista di cui proprio non sentivamo la mancanza, e cioè il simpatico metodo del punirne uno, per educarne (si fa per dire) cento.

Non sarà mai sottolineato abbastanza il carattere “squisitamente” filosofico di questo “gioco al massacro”. Non ricordo, ma può essere mi sbagli, un manifesto “Non solo Mattei”, quando il noto giurista torinese fu tra i primissimi a sottolineare le palesi incostituzionalità già dei primi lockdown, come qualcuno di noi ha anche provato a ribadire a più riprese; e non ricordo neppure un manifesto intitolato “Non solo Freccero”, oppure, a questo punto, un manifesto di Freccero “Non è la Rai”, che avrebbe fatto anche più ridere. E così via, di categoria in categoria, i filosofi davanti alla pandemia, mi pare, sono quelli che più di tutti hanno fatto, come gruppo sociale, la figura del cioccolataio (non me ne vogliano i cioccolatai, di grazia). Persino i “migliori” sono stati lì dei mesi a disquisire per ore se questo fosse effettivamente o non fosse uno “stato d’eccezione”, per non tacere, poi, di quelli che appunto tacciono, completamente non più reperibili da febbraio 2020, quando un tempo erano i primi a “disgiungersi in aspra contesa” per le magre colonne d’un rotocalco qualsiasi, anche di provincia, smaniosi di dispensare i loro laconici commenti à la Zarathustra sullo stato dell’arte geopolitico.

Se è vero, come diceva Hegel, che la filosofia altro non è che “il proprio tempo, appreso nel pensiero” mediante la sua riflessione nel concetto, allora è evidente come il silenzio del filosofo, del suo pensiero sul proprio tempo, è un silenzio meno facilmente perdonabile di altri. In questo senso, mi piace spesso ricordare una figura davvero d’altri tempi, il filosofo torinese Piero Martinetti; data la sua altissima considerazione della morale kantiana, che durante il ventennio fascista era già da parecchi anni professore di filosofia morale alla Università Regia di Milano, poi Statale, passò alla storia come il solo filosofo, di 13 docenti universitari, che preferì congedarsi dall’insegnamento, alla richiesta di prestare giuramento al regime fascista, rifiutando di prostituire sé stesso, e le ragioni della scienza, a interessi politici di bassa lega. Da vero kantiano, motivò perfettamente questa sua presa di posizione come un “imperativo morale” che gli impediva di confondere “mezzi e fini” nella “cura” delle persone. Pubblicamente, disse che non avrebbe avuto più nulla da insegnare, se si fosse piegato a quel giogo; privatamente fu ancora più esplicito, confessando, in una lettera al collega ed amico socialista Adelchi Baratono, che quel gesto ebbe un forte “movente religioso”, in quanto non gli sarebbe stato possibile, prestando quel giuramento, dannarsi l’anima e mescolare tra di loro cose che dovrebbero restare separate, ovvero “cose terrene e cose di Dio”, scienza ed atto di fede.

Ancora oggi, per ricordare il suo gesto eroico, il dipartimento di filosofia della Università di Milano è giustamente intitolato alla sua figura, e questo è un fatto. Un altro fatto, tuttavia, è che, in quello stesso dipartimento, ad oggi si entra, a norma di legge, soltanto mostrando una tessera al suo ingresso; e sono esattamente queste le cose sulle quali un filosofo non può sospendere il giudizio.