Ventidue anni sono trascorsi dal violento e scioccante esordio del club dei lottatori. Oggi, però, Tyler Durden/Brad Pitt sorseggia caffè espresso De Longhi in tivù, mentre lo scialbo Sebastian – questo il nome dell’anonimo protagonista del romanzo-lungometraggio – è un colletto bianco di mezza età imbottito di psicofarmaci, sposato con Marla e padre di un figlio che già filtra cristalli di nitrato di potassio ottenuti dalla cacca di cane mista a cenere di legno e paglia bagnata con l’urina. Sebastian/Tyler ha rinunciato al suo esercito in cambio di una tranquilla vita piccolo-borghese. Un Vecchio della Montagna mancato; un Gengis Khan farmacologicamente sedato.
Nel 1995 ovviamente tutto questo era inimmaginabile, almeno quanto un romanzo che parlasse di annoiati impiegati che nei fine settimana, per sfuggire al deprimente circolo del produci-consuma-crepa, si davano appuntamento in uno sporco seminterrato per massacrarsi di pugni e presentarsi il lunedì in ufficio con la faccia pesta e orrendi lividi al solo scopo di sentirsi orgogliosamente vivi.
“Gli uomini sono potenziali predatori e stanno abbandonando un insegnamento di massa” è la fondamentale lezione di Tyler Durden. La “civilizzazione” li ha addomesticati, il consumismo li ha domati per mezzo di uno spicciolo benessere, facendo loro dimenticare d’essere composti di carne, sangue e muscoli. Il compito più difficile che affida ai suoi uomini è, infatti, proprio quello di provocare uno sconosciuto passante fino a convincerlo a battersi per infine farsi sconfiggere. Un insegnamento “karmico” o un tentativo di fare nuovi adepti; di risvegliare altre assopite coscienze? Di certo, intanto, l’esercito cresce. Il club apre nuove filiali, si diffonde a macchia d’olio. Crea i propri riti e il proprio codice. E si prepara a scatenare l’entropia.
Fight Club è, però, anche la storia del rapporto tra Chuck Palahniuk e Gerald Howard, editor della W. W. Norton, orgogliosa casa editrice indipendente di New York dove i dipendenti sono soci. Gerald aveva già letto il manoscritto di Invisible Monsters, scritto da uno sconosciuto autore di Portland dal nome impronunciabile. Una storia che parlava di una top model orrendamente sfigurata scortata da una cricca di tamarri che rubavano droga dagli armadietti di vecchi ricchi. Un po’ troppo per una casa editrice “conservatrice”; eppure, quando i due per la prima volta s’incontrarono di persona, trovarono un’insolita sintonia; tanto da vedersi un giorno recapitare una storia intitolata “fight club” con la domanda se si dovesse ricavarne un romanzo.
“La proposta vaffanculo” – come l’ha in seguito definita Palahniuk in diverse interviste – era in realtà l’unica che Howard fosse riuscito a strappare alla riunione editoriale in cui propose l’acquisizione del libro da parte della Norton. Nessuno dei colleghi era propenso a pubblicare una storia che parlava d’una mascolinità “degenerata”; di giovani che avendo perso ogni riferimento paterno e senza alcun modello virile da seguire accumulavano merci che non gli servivano facendo lavori da quattro soldi. “Le cose che possiedi, alla fine, ti posseggono” proclama il Tyler-santone in quell’America appena inebriata dai prodotti a basso costo dell’Ikea e Gap.
Il punto è che seimila dollari erano il massimo che Howard potesse offrirgli, mentre si chiedeva letteralmente “chi, cazzo, comprerà questo libro?”. Le vendite, in effetti, non superarono le cinquemila copie per la prima cartonata edizione. Poi arrivò un’influente produttrice della Fox a opzionarlo per un film; Jim Uhls scrisse uno strepitoso adattamento e David Fincher, oscuro demiurgo di Hollywood, s’innamorò del progetto facendolo suo. Il resto è, come si dice, storia.
Il film, viscerale, cupo e senza respiro, fu un fiasco nei cinema prima di assurgere al rango di cult-movie generazionale. Rarissimo caso in cui risulta davvero impossibile affermare con certezza se l’originale batta la copia,grazie alla strepitosa sceneggiatura e alla fenomenale mano del regista nel dirigere il duo/doppio Edward Norton/Brad Pitt che arrivarono assieme strafatti d’hashish alla prima del Festival di Venezia. Il pubblico osservò inorridito quelle due ore di folle violenza, sbigottito dall’assoluta mancanza di politically correct di un film dove il protagonista è un anti-eroe dalla personalità multipla e la trama gira vorticosa su se stessa riportandoci fatalmente all’inizio.Spaccare la faccia a Jared Leto/Faccia d’Angelo urtò la sensibilità della platea femminile quanto la battuta di Helena Bonham Carter dopo l’incontro con Tyler, “mio Dio, era dalle elementari che nessuno mi scopava così!”. La gente si alzava e usciva dalla sala mentre i due ridacchiavano perfettamente calati nella parte, dopati di thc, fregandosene altamente; giustamente già consci del giudizio dei posteri.
Lo stesso Gerald Howard in seguito ha ammesso di non avere capito subito che Tyler Durden fosse solamente la proiezione della mente del protagonista; imputandone la “svista” al fatto che spesso Tyler dialogava direttamente con Marla. Suggerisce allora a Palahniuk di fare in modo che parli esclusivamente con il narratore. Nel film ovviamente Fincher/Uhls escogitano un modo visivo per “imbrogliare” lo spettatore, facendoli comunque discutere (e perfino scopare) senza, però, che si ritrovino mai insieme nella medesima inquadratura. L’impianto regge alla perfezione ed è Marla, semmai, a disseminare i pochi indizi utili a ricomporre la scissione di personalità.
Oggi Tyler Durden riappare solamente per 50 minuti al giorno, 3 volte a settimana – come disegnato in Fight Club 2, la graphic novel sequel del libro – e vuole far sparire per sempre Sebastian o, forse, come un virus è già penetrato nella mente del figlio dinamitardo. Durante l’ultimo decennio, corrompendo lo psicanalista, ha fondato un’agenzia di mercenari e fatto consegnare armi dai fattorini di Amazon. S’ispira a Mosè quando ha fatto vagare gli ebrei nel deserto per cent’anni. Il motivo? “Per creare una nuova nazione c’è bisogno di una generazione di uomini liberi; gli schiavi affrancati restano schiavi”. Più chiaro di così…