La città catalana è stata per decenni un simbolo di rinascita e di grandi visioni urbanistiche Poi è arrivato il declino. Ma invertire la tendenza si può: basta orientare i flussi di visitatori
di Carlo Ratti
Ho iniziato a frequentare Barcellona all’inizio degli anni Duemila. Era una metropoli in forma smagliante — ottimista, vivace, progressista, brulicante di giovani in arrivo da ogni parte del vecchio continente. Ricordo la sorpresa nello scoprire una spiaggia nudista nel cuore della città; o ancora quella sensazione di equilibrio tra fierezza catalana e capacità di apertura al mondo. Come immortalato in una commedia del 2002, L’appartamento spagnolo , dedicata alla vita di un gruppo di studenti Erasmus, Barcellona era allora, senza pochi dubbi, la prima contendente al ruolo di capitale dell’Europa mediterranea.
Non sempre però era stato così. Chi conobbe Barcellona nel periodo franchista ricorda un luogo grigio, negligente verso le proprie bellezze naturali. La svolta avrebbe dovuto aspettare la fine del regime. La data di riferimento citata più spesso è quella delle Olimpiadi del 1992. Evento che gli amministratori locali sfruttarono con ingegno come strumento per far rinascere la città. La modernità innovativa di Barcellona discende però da un esempio ancora anteriore: il celebre lavoro dell’urbanista Ildefonso Cerdà, il cui piano di espansione firmato nel 1860 ancora oggi svetta per intelligenza e lungimiranza. Fu lui a progettare l’Eixample, un’ampia area basata su isolati a pianta quadrata. Qui la densità di abitanti per chilometro quadrato è superiore di quella di Manhattan. Eppure, a differenza di quest’ultimo luogo, notoriamente afflitto da problemi di congestione, l’Eixample è considerata una delle parti più piacevoli della città. Come è possibile? La risposta a questo rompicapo arrivò un secolo dopo, quando Leslie Martin e Lionel March dell’università di Cambridge provarono in modo scientifico l’intuizione di Cerdà. Egli aveva compreso che la forma a corte garantisce la più efficiente organizzazione della densità, mantenendo la concentrazione della popolazione elevata anche con edifici relativamente bassi. Diventa così possibile conseguire tutti quei vantaggi di vivacità economica e culturale che derivano dall’alta densità umana, senza quelle derive spersonalizzanti tipiche delle foreste di grattacieli. L’Eixample fu a sua volta la base regolamentata da cui scaturì la follia plastica di Antoni Gaudí. Altre tappe importanti nel percorso di innovazione furono le esposizioni universali: soprattutto quella del 1929, dove fu presentato uno dei capolavori dell’architettura moderna — il padiglione nazionale tedesco progettato da Mies van der Rohe. L’influenza di quell’opera si estende anche al design degli interni, per cui si ricorda l’elegantissima sedia Barcelona.
Vennero poi i decenni bui, della guerra civile e del franchismo — e tra i simboli della condizione di afflizione in cui la città era caduta c’era il lido della Barceloneta, il quale fino agli anni Sessanta ospitò in riva al mare una baraccopoli abitata dagli immigrati delle campagne. Dopo la fine del regime, diventò sindaco Pasqual Maragall e con lui si aprì una nuova fase. Il 17 ottobre 1986 venne annunciata la vittoria di Barcellona alla candidatura ai giochi olimpici. Il budget era limitato, ma Maragall riuscì a sfruttare quella opportunità per avviare un processo di ridisegno urbano che si sarebbe rivelato tra i più riusciti del tardo Novecento europeo. Si avvalse dell’aiuto di un professionista come Ignasi de Solà-Morales, di cui qualche anno dopo ebbi la fortuna di diventare amico. Oltre alla costruzione degli impianti sportivi, il piano andò ad affrontare due dei maggiori problemi della cit tà. Il primo riguardava il collegamento con il lungomare, a lungo smarrito a causa delle infrastrutture viarie e industriali costruite senza criterio nei decenni precedenti. Oggi le strade scivolano dolcemente verso il porto, mentre le spiagge ormai balneabili e il lido della Barceloneta sono un ritrovo alla moda. Il secondo intervento andò a ripensare gli spazi pubblici, intesi non soltanto come luoghi fisici, ma come anima dello spirito civico. Il progetto delle “cento piazze” cambiò profondamente la visione dei barcellonesi verso il patrimonio collettivo. Una conseguenza inaspettata fu quella di far emergere il talento architettonico locale, che poteva contare su una nobile tradizione, ma era stato schiacciato dal periodo franchista. Il successo di Barcellona fu tale che nel 1999 la prestigiosa Royal Gold Medal della RIBA — l’associazione degli architetti britannici — fu assegnata, per la prima volta nella storia, non a un progettista ma proprio alla capitale catalana.
Ma arriviamo alla Barcellona di oggi. Per farla breve, si potrebbe dire che la città sia rimasta vittima della propria primazia nel marketing urbano. Sin dalla conclusione delle Olimpiadi del 1992, la Catalogna è diventata una delle destinazioni di viaggio più popolari d’Europa. Secondo alcune statistiche, almeno dal 2012 si sono contati ogni anno tra i 25 e i 30 milioni di visitatori: anche se non tutti erano turisti, la pressione è particolarmente forte su una municipalità che conta poco più di un milione e mezzo di abitanti. A Barcellona hanno così iniziato ad essere evidenti le conseguenze negative del turismo di massa, ben familiari anche alle città d’arte italiane: la diffusa mancanza di rispetto per i beni comuni, l’erosione dei servizi di commercio per residenti, l’indiretta espulsione della popolazione locale per far spazio a hotel ed Airbnb.
Lungi dal restare passivi, gli abitanti locali hanno iniziato a reagire, anche in maniera tempestosa. Hanno fatto il giro del mondo i graffiti contro i turisti apparsi su certi muri, o i racconti dei lanci di oggetti contro le comitive di passaggio. Un simile spirito si è infine affermato anche nel palazzo del Comune, con la vittoria del sindaco Ada Colau e della sua piattaforma populista. Tuttavia, come spesso capita quando i movimenti di protesta raggiungono il potere, il risentimento non ha saputo tradursi in un nuovo progetto urbano.
La pandemia di Covid ha esacerbato la situazione di crisi: nel 2020, l’orda di turisti e bagnanti si è all’improvviso dissolta, lasciando le ramblas vuote e centinaia di negozi sull’orlo del fallimento. Negli ambienti politici, dell’impresa e dell’università è ormai condivisa l’opinione che il ciclo iniziato con le Olimpiadi del 1992 volga al declino. Ma intorno a quale obiettivo comune si potrà inventare la Barcellona di domani? Io credo che un’ipotesi potrebbe riguardare la promozione di un modello alternativo della fruizione della città, che rimpiazzi il turismo mordi e fuggi e i suoi eccessi.
«Essere un turista significa fuggire le responsabilità» è la celebre definizione di Don DeLillo. Com’è noto, troppo spesso i turisti sfrecciano impunemente per le città, distorcendo l’economia locale e senza instaurare alcun rapporto con i residenti. Usano l’”urbs” — la città fisica, come veniva chiamata dagli antichi romani — senza dare un contributo significativo alla “civitas”. Come cambiare le dinamiche di questo tipo? Una possibilità potrebbe essere quella di rallentarle. Potremmo chiamare questo nuovo modello “turismo posato”. I suoi adepti, i “viaggiatori posati”, resterebbero per periodi più o meno lunghi in un certo luogo invece di saltare di continuo da un posto all’altro. Le videochiamate su Zoom o Teams, con cui milioni di persone hanno acquisito familiarità sin dai primi mesi di lockdown del 2020, già oggi consentono a molti giovani di stabilirsi in luoghi lontani da casa senza interrompere la propria vita professionale. Allo stesso tempo, la flessibilità per altri versi discutibile della cosiddetta “economia dei lavoretti” (gig economy) potrebbe creare opportunità di lavoro locale.
Per attrarre i “viaggiatori posati” nei propri quartieri, Barcellona potrebbe sfruttare il potere delle piattaforme online. Oltre a creare opportunità di volontariato o di lavoro temporaneo, potrebbero essere offerti incentivi alle aziende del settore dell’accoglienza per offrire sconti maggiori per soggiorni lunghi. Un’altra opportunità riguarda il modo in cui lo scenario post pandemico sta cambiando le infrastrutture del mondo dell’università. Cosa succederebbe se Barcellona offrisse ai ragazzi un alloggio a basso costo, che permetta oggi di terminare la formazione online e domani magari di avviare start-up e imprese nel territorio? Si tratta di ipotesi complesse, la cui esecuzione richiederebbe coraggio e audacia. La storia insegna tuttavia che pochi altri luoghi più di Barcellona possiedono queste doti. Inseguendo tale direzione, la creatività e intraprendenza catalane potrebbero tornare a indicare la strada a molti altri centri, in Europa e non solo, per i quali il successo nel marketing urbano ha prodotto tante luci quante ombre.
La serie speciale “La rivoluzione urbana” di Carlo Ratti è distruibuita in ambito internazionale da Project Syndicate.