‘LA SCUOLA CATTOLICA’: ESSERE O DIVENTARE UN MASCHIO VIOLENTO?

A cinque anni dal premiato libro di Edoardo Albinati, Stefano Mordini firma la regia de ‘La scuola cattolica’ e incorre nel veto della censura. Libro e film rilanciano domande fondamentali e dibattute sul carattere della violenza maschile e sul conflitto tra i sessi

La scuola cattolica di Stefano Mordini, film ispirato al monumentale lavoro letterario omonimo di Edoardo Albinati (oltre 1200 pagine, nel 2016 vincitore del Premio Strega), passato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia e ora uscito nelle sale, è stato vietato alle ragazze e dei ragazzi di meno di 18 anni. È intervenuta su questo la Commissione censura, istituzione antichissima di cui ci eravamo dimenticati e che sostanzialmente non si pronuncia mai in questi termini, con una decisione inopportuna, al di là dell’evidente crudezza e violenza di varie scene del film. Molti invece hanno ritenuto che la visione del film avrebbe potuto essere particolarmente utile proprio ai più giovani, dato che molti dei protagonisti di quei fatti realmente accaduti, che andarono nel 1975 sotto il titolo ‘delitto del Circeo’, erano appunto teenager: tre giovani uccisero una coetanea (un’altra si salvò per miracolo, portando poi all’arresto dei responsabili), dopo averle entrambe più volte torturate e violentate, in una villa lussuosa sulla costa laziale. Per sadismo, aggressività, quasi divertimento. E per sfogare una violenza repressa, frutto di anni di educazione familiare e scolastica (rigidamente cattolica e ipocrita): questa almeno è la tesi di Albinati, che frequentava lo stesso istituto dei tre andava e dunque conosceva bene atteggiamenti, motivazioni, deliranti valori. L’ambigua operazione di censura riguarda le scene, molto esplicite, che riproducono le sevizie inflitte con compiacimento e complicità dai tre ragazzi della Roma bene, ma anche la discussione (forse dall’intransigente Commissione Censura ritenuta un po’ blasfema) tra un professore della scuola (Fabrizio Gifuni) e la sua classe intorno a un Cristo flagellato e agli scambievoli, secondo lui, ruoli di vittima e carnefice.

La violenza maschile ‘innata’ È il tema fondamentale della vicenda, del libro e del film, perché parte dal punto di vista di Albinati sull’origine e il ruolo dell’aggressività e della violenza nel maschile. Dice il professore ai ragazzi, in sostanza: il passaggio dall’adolescenza all’età adulta necessariamente prevede azioni violente, malvagie, non condivisibili. Perché in qualche modo è questo il succo del crescere, per i maschi. Nel film non tutti sono d’accordo con lui, ma i fatti del Circeo, e poi il libro e ora la pellicola, si incaricheranno invece proprio di dimostrare quell’assunto, leggendo l’assassinio di Rosaria Lopez e le spaventose violenze compiute su Donatella Colasanti ad opera di Angelo Izzo, Andrea Ghira e Gianni Guido, proprio come parte di una sorta di sanguinoso rito di iniziazione maschile al mondo dei grandi.

Ha spiegato Stefano Mordini: «Edoardo Albinati nel romanzo scrive che nascere maschi è una malattia incurabile. E la nostra responsabilità come maschi è importante. L’ha fatto poi aggiungendo che questa storia non è finita, il Male non è finito. La volontà nel fare il film era quella di continuare a parlarle di ciò che era accaduto attraverso una storia che la mia generazione conosce molto bene, ma in una chiave che possa portare un nuovo contributo: riflettere sul concetto di impunità. C’è un limite che il racconto dichiara: anche un altro gruppo di ragazzi va al Circeo e davanti a due ragazze trova il limite, gli altri no. Questo film parla anche della necessità di mostrare quel limite. Anche per questo abbiamo eliminato i riferimenti al fascismo (era l’ideologia strisciante nel gruppo, e quella esplicita di molti singoli, ndr) e alla droga: per noi era importante prendere quel racconto, identificarlo in quello del maschio che usava e vedeva la donna come un oggetto. In quegli anni il delitto del Circeo generò un dibattito. Pasolini da parte sua sottolineò che quella violenza non era solo appannaggio della borghesia, ma anche della gente della borgata. Volevamo portare attenzione al tema dell’impunità. Portare quella storia all’oggi e far diventare quella responsabilità di tutti».

Tornando al tema chiave, discusso anche aspramente riguardo al libro, qualcuno (e qualcuna) ha sostenuto che dando alla violenza maschile un aspetto di innatismo, quasi genetico verrebbe da dire, si fa un’operazione di deresponsabilizzazione dei singoli maschi rispetto ai loro gesti individuali (dai più lievi al delitto del Circeo) e si rende ancora una volta protagonisti assoluti i maschi nella relazione con l’universo femminile, ridotto ancora una volta ad un ruolo che è al massimo di coprotagonista. La tesi di Albinati, cito da una sua bella intervista del 2016 a Bia Sarasini, è «che vi sia qualcosa di profondo che si può al più controllare, o reprimere, attutire. Che vi sia una potente ma implicita violenza nell’incontro tra uomo e donna. Addirittura arrivo a ipotizzare che sia sempre presente, anche nell’incontro più gioioso o più felice, spensierato. O addirittura nel patto coniugale. Si attiva raramente ma c’è sempre, in potenza. E in una delle poche convinzioni che posso rivendicare come teoria personale e non altrui, penso che questo avvenga per un timore, come reazione a un timore, una ritrosia fondamentale del maschio all’atto sessuale stesso. È un rovesciamento rispetto all’idea della ritrosia femminile. Al contrario vi vedo una reazione violenta alla paura, al timore che nel maschio c’è delle conseguenze, delle implicazioni dell’atto sessuale. Che devono essere cancellate nell’atto stesso, compiuto in modo violento. Come se, nel congiungersi con una donna, il maschio senta un rischio, ed elimini il rischio con la brutalità». Forse altri hanno teorizzato l’ineludibile violenza del carattere maschile a scopo difensivo, ragionando in generale o proprio parlando di specifici imputati di reati, delitti. Non mi pare il caso di Albinati, che guarda più in alto, aggiungendo, forse anche con un pizzico di autoprovocazione: «Per me la reificazione del corpo altrui è il punto più mortificante e vile dei rapporti umani, ma anche il più desiderabile. Se si realizza in chiave amorosa è l’approdo della propria beata spersonalizzazione. Basta con l’io, tu – siamo cose nelle mani dell’altro – è l’uscire da questa condizione di finitezza, di identità, di maschio-femmina».

Mi sembra anche semplicistico liquidare solo come forma estrema di protagonismo maschile l’autorappresentazione in termini di violenza, aggressività, sopraffazione. Molte volte, come è anche il caso di La scuola cattolica, tutto questo comporta vera sofferenza, in modo particolare trattandosi qui di una narrazione complessivamente autobiografica. In ogni caso penso, e lo dico da maschio, che l’aggressività, dato caratteriale dell’intero genere umano, sia particolarmente evidente nel nostro universo. Reagiamo spesso con paura violenta (in questo ha ragione Albinati) alle condizioni di difficoltà. Aggredendo. Perché la ragazza che non accetta le tue avanches mette in discussione il pilastro della tua maschilità e del patriarcato, cioè il potere di decidere e disporre sempre di ciò e di chi vuoi. Il ‘contratto sociale’, che in qualche modo (anche se non dovunque) ha ancora valore, riduce i casi spaventosi come il delitto del Circeo, anche se 112 femminicidi nel 2020 e 81 nel 2021 (che non è ancora finito), e solo in Italia, sono cifre spaventose.

La riflessione, che riguarda tutti, va fatta però sul confine tra comportamento violento pensato e compiuto, che non è poi così invalicabile. Ancora Albinati: «La differenza che c’è tra il moralismo piccolo e il moralismo grande, è che il moralismo piccolo trova le differenze con quello che vuole condannare. Il moralismo grande è quello che trova le somiglianze. Che cosa ha in comune chi scrive, il moralista, con il peccatore, il criminale, con colui che deve essere esecrato? Molto, troppo. Ma non però per un rapporto di causa-effetto, ma per un rapporto di contiguità, di somiglianza. Di analogia. È stata la scuola cattolica a produrre i mostri del Circeo? No. Potevano venire da un altro posto che non fosse quello? No. Solo in quegli anni, solo in quel quartiere potevano concentrarsi quegli elementi che hanno portato al delitto»

Ragioni storiche, sociali ed elementi endemici della psicologia maschile (che esiste, eccome, anche se non è un monolite e le differenze individuali contano, eccome) si mescolano in modi diversi nelle riflessioni di diversi autori. Forse Albinati, e con lui Mordini (ma mi è parso in misura minore), propendono per la genetica dell’aggressività, portando la caratterizzazione dei tre ragazzi assassini, ma anche di molti personaggi di contorno nelle loro e altrui famiglie (Riccardo Scamarcio, Valeria Golino, Valentina Cervi, Jasmine Trinka), quasi a vertici lombrosiani, soprattutto nelle sequenze delle azioni più feroci. Non si può dire però che scrittore e regista trascurino le ragioni socio-culturali, la collocazione anche temporale dei fatti, tutte cose evidenti già nel titolo: la violenza repressa che, caso estremo, ha portato a torture, stupri e morte, era causata non poco dal clima e dai metodi di una scuola intollerante e repressiva e da famiglie al tempo stesso severe, ipocrite e sfasciate in molti sensi e direzioni.

Il conflitto uomo-donna Da qui si può però ancora risalire, allargare l’analisi, e Albinati nemmeno in questo si nasconde, al complessivo stato del rapporto tra i sessi nella nostra società. Decisamente critici, anche secondo lui. Una premessa. Non esistono, a mio avviso, uomini femministi, come non ci sono palazzinari di sinistra o bianchi che vogliono davvero la pelle nera, neanche Fausto Leali, che si riferiva chiaramente alla voce. Ci sono invece molte persone civili e di varie età che hanno preso atto e coscienza che un esplicito conflitto uomo-donna è in corso da molti decenni, e che è un conflitto complessivamente fruttuoso (come lo è stata e continua ad esserlo la lotta di classe, ora materia per giovani precari quanto per gli operai rimasti) e che la sua origine sta nella sacrosanta presa di coscienza delle donne di quanto la società sia impari e ingiusta in termini di possibilità sociali, collocazione familiare, demarcazione di presunte superiorità culturali o psicologiche. Anche se ormai, in occidente (a Kabul invece…), sono sempre meno gli uomini che dichiarano apertamente di apprezzare tutto questo, molti aspetti dalla realtà – dal gap degli stipendi alla drammatica contabilità dei femminicidi, dimostrano il contrario. Questo conflitto ha finalmente costretto molti a interrogarsi e poi a prendere posizione, e possibilmente ad agire, per riequilibrare le disparità, storicamente determinate nella loro forma moderna della stratificazione nata con la società industriale e la famiglia borghese. Quel conflitto, Albinati esplicitamente lo teorizza, o forse più semplicemente ne constata l’esistenza, dandolo per quasi eterno, salvo fare strane classifiche con altri tipi di conflitti, ma ciò è secondario: “Da millenni si svolge un grande conflitto, il più grande, il meno considerato, il meno evidente, il più duraturo e più significativo, quello tra uomo e donna”, aggiungendo che per lui ha peso maggiore “piuttosto che quello tra classi o tra generazioni”.

Così inquadra il delitto del Circeo, all’interno di questo conflitto, come una rappresaglia contro il potere femminile che a partire da quegli anni stava aumentando. E prosegue la sua conversazione con Sarasini con un ultimo, interessante elemento: «La rappresaglia prevede la totale intercambiabilità delle vittime. Fatto peraltro vero, in questa storia particolare. Le ragazze dovevano essere altre, e anche alcuni dei violentatori. L’intercambiabilità secondo me è la caratteristica più tipica della violenza sessuale. Anche quella degli stupratori, non solo quella delle vittime, statisticamente assodata. Nei casi di violenza precedenti al delitto del Circeo erano stati coinvolti altri ragazzi di quella stessa classe, di quello stesso gruppo, che poi hanno pagato per nulla o minimamente. Era più interessante ma anche più perturbante, per me, come scrittore, ipotizzare che l’essere vittima ma anche l’essere stupratore fosse alla portata di tutti».