La scrittrice newyorchese originaria di Addis Abeba è protagonista a Mantova. Qui racconta il suo romanzo che rilegge al femminile la storia dell’occupazione fascista
diRaffaella De Santis
MANTOVA
Non c’è dubbio che ieri la regina della giornata di apertura della venticinquesima edizione del Festivaletteratura di Mantova era lei, Maaza Mengiste, scrittrice newyorchese originaria di Addis Abeba vincitrice col suo ultimo romanzo Il re ombra (Einaudi) del premio Von Rezzori e finalista al Booker Prize. La incontriamo a ridosso dell’incontro che ha tenuto con Carlo Lucarelli, nella sala di un hotel che guarda su Piazza delle Erbe. Le diciamo subito che il suo libro è una bomba per noi italiani, perché ci sbatte in faccia la crudeltà della colonizzazione vista dal di dentro, dalla parte degli etiopi: i gas lanciati dagli aerei, i bambini morti, gli stupri e tutto quel repertorio dell’orrore che ha disintegrato il mito degli italiani brava gente. Lei sorride cordiale ed è chiaro che quella apparente seraficità è frutto di anni di scavo dentro i propri mostri. Non solo: il libro riscrive quella fetta di storia dalla parte delle donne. Sono loro le protagoniste della resistenza etiope, cancellate dalla storia ufficiale.
C’è dietro un lungo lavoro documentale?
«Più di dieci anni di ricerche. Sono arrivata in Italia nel 2010 grazie a una borsa di studio e ho vissuto a Roma per quasi un anno. All’inizio ero piena di rabbia, poi man mano che procedevo con lo studio leggendo libri, documenti, frequentando gli archivi, qualcosa dentro di me si è smosso».
Che cosa ha imparato?
«Che esistevano due propagande, due narrazioni agli antipodi ma entrambe propagandiste: la versione italiana fascista e quella che mi era stata tramandata dalla mia famiglia, i racconti con cui ero cresciuta».
Non erano veri neanche quelli?
«Non che non lo fossero ma al centro tra i due estremi iniziava a profilarsi una narrazione nuova. Quel centro era occupato dalle donne. Erano loro il segreto nascosto che nessuno aveva voluto raccontarmi».
La protagonista del suo libro, l’orfana e serva Hirut, è una valorosa combattente nella resistenza etiope contro gli invasori. Con lei ci sono altre donne, altrettanto coraggiose. Perché il loro supporto non è stato abbastanza valorizzato dagli storici?
«Eppure sono state migliaia a combattere, ma sui giornali dell’epoca venivano dedicati loro solo piccoli e insignificanti trafiletti.
Le donne durante la guerra hanno subito ogni sorta di violenza. Per i nemici erano al pari dei territori da conquistare e depredare. Su loro poi è caduto il silenzio. Perfino nella mia famiglia non se ne era mai fatta menzione. Mia madre mi ha raccontato la storia della mia bisnonna soldato solo dopo aver letto il libro. Ero sconvolta, le ho detto: perché non me ne avevi mai parlato prima? Lei mi ha semplicemente risposto: tu non me lo hai mai chiesto. Ho realizzato solo allora che la storia delle donne era destinata alle chiacchiere private, era parte delle cosiddette “chiacchiere in cucina” di donne con altre donne. La storia ufficiale è fatta da uomini per altri uomini. Ora arrivava quella coincidenza tra il mio romanzo e la realtà. Non era incredibile? La mia bisnonna, come Hirut, aveva imbracciato un vecchio fucile del padre ed era andata a combattere contro il nemico».
Può la presenza femminile modificare la narrazione di una guerra?
«Ho voluto scrivere del potere, indagare dentro la crudeltà degli esseri umani. Non sto dicendo che le donne siano migliori degli uomini ma che il potere si è sempre servito di una narrazione patriarcale. Le donne costringono il vocabolario guerresco a cambiare, rovesciando l’idea di eroismo e mascolinità. Accadeva già nella mitologia antica. Pensiamo al mito di Pentesilea, la donna amazzone che combatte contro Achille».
Crede che gli italiani abbiano fatto davvero i conti con il colonialismo in Africa?
«Durante le mie ricerche ho incontrato persone molto gentili e altre rudi, infastidite. In un mercatino napoletano avevo trovato in una bancarella vecchie foto coloniali. Il proprietario me le ha strappate di mano e mi ha intimato di andarmene. In una biblioteca romana è successo il contrario: uno dei bibliotecari porgendomi la pila dei documenti mi ha detto: mi dispiace per quello che abbiamo fatto. In Italia forse è mancata una narrazione popolare su quel periodo, una narrazione diffusa come quella che c’è stata in Sudafrica dopo l’apartheid».
Nel romanzo a un certo punto compare Indro Montanelli. Ha seguito le polemiche intorno alla sua statua a Milano?
«Montanelli comprò una sposa ragazzina di 11-12 anni. In realtà non possiamo sapere con precisione l’età perché nei villaggi africani non si registravano le nascite. Ma la comprò, questo lo sappiamo. E la violentò più volte. Sappiamo anche questo, è stato lui a raccontare che lei non voleva».
Nel romanzo la protagonista è violentata più volte dalla sua gente, dal suo padrone e comandante.
«Ho voluto denunciare una cultura del patriarcato su entrambi i fronti.
Da italiano Montanelli avrebbe potuto riconoscere i segni di quella crudeltà e discostarsene. Non lo fece perché condivideva evidentemente quella cultura patriarcale. Perché non mettere al posto della sua statua quella di una donna della Resistenza? In Italia vorrei vedere più statue di donne partigiane».
Sono passati anni, oggi come guarda indietro?
«Come le dicevo con meno acredine.
Sono molto meno arrabbiata.
Scrivendo questo romanzo sono riuscita a rintracciare la compassione dentro la crudeltà. E ho avuto modo di allargare lo sguardo. A Firenze, dopo una presentazione, si è avvicinato un vecchio signore. Aveva in mano un ritaglio di giornale del 1936. Voglio mostrarti questo, mi ha detto. È mio padre, è stato seppellito nella tua terra. Ho capito in questi anni che dietro quei soldati c’erano delle persone, con le loro famiglie, i loro affetti. E che quella è stata anche la loro guerra, non solo la mia».